domenica 22 maggio 2011

le parole suicidate (Inf. XIII)

di lo Scorfano

In terza interrogo Mauro, su un programma che comprende diversi canti dell’Inferno di Dante e qualcos’altro ancora. Gli chiedo il tredicesimo canto, quello piuttosto famoso che ha come illustre protagonista Pier delle Vigne, suicida, accusato di tradimento ai danni del suo imperatore, Federico II di Svevia (tradimento che secondo Dante egli non aveva mai commesso). Pier delle Vigne è condannato a essere albero, vegetale entro una selva di suoi simili, suicidi come lui; per sentirlo parlare Dante deve spezzargli un ramo, da cui escono parole e sangue, stridendo e gemendo. Chiedo a Mauro di leggere alcune terzine, di spiegarmi il testo, di farmi notare quello che a lui pare importante delle parole che Dante fa pronunciare a questo grande uomo politico (ma anche poeta) che fu Pier delle Vigne. Lui legge:
Io son colui che tenni ambo le chiavi
   del cor di Federigo, e che le volsi,
   serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi;
   fede portai al glorïoso offizio,
   tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.
Mi spiega che c’è quell’aggettivo, «soavi», a dire la dolcezza della persuasione, tutta l’abilità del diplomatico che ha a che fare con il potere assoluto, ma sa come gestirlo. Mi fa notare i due gerundi, «serrando e diserrando», che contribuiscono alla fluidità calma del verso, a renderlo quasi un meccanismo oliato che non ha bisogno di altro che delle parole del protagonista. «È il consigliere che sa guidare la nave del suo capo», mi dice; e io annuisco con la testa.        
          Ma c’è anche la «fede», naturalmente, la «fedeltà». Mauro mi dice che in quella posizione, a inizio verso, il termine «fede» acquista una forza e una perentorietà emblematiche, che servono a ribadire l’innocenza di Pier delle Vigne; così come il suo «perdere il sonno» del verso successivo. Gli dico che è tutto vero e gli chiedo di proseguire nella lettura:
La meretrice che mai da l'ospizio
   di Cesare non torse li occhi putti,
   morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
   e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
   che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.
La «meretrice» significa «la prostituta», mi dice Mauro; e poi prosegue a dire che si tratta in realtà dell’invidia, quella che alligna nei luoghi dove ha sede il potere e che ha distrutto la vita di Pier delle Vigne. E mi fa notare quei due titoli così altisonanti, «Cesare» e «Augusto», entrambi riferiti a Federico II, erede in tutto e per tutto, secondo Dante, dell’Impero romano. E poi anche quegli «occhi putti», sfacciati e peccaminosi, gli occhi dell’invidia che precedono di poco il «vizio», che è sì delle corti, ma in realtà è un’accusa nei confronti del potere in generale. Tanto che Pier delle Vigne viene accusato di tradimento e viene rinchiuso in carcere da quello stesso imperatore Federico che lui pensava di poter governare, come si governa una nave; Pier delle Vigne finisce in carcere e si suicida per disperazione.

Mauro racconta e spiega e io lo ascolto e mi pare che abbia capito bene, che abbia studiato e riflettuto come doveva. Allora, mentre lui mi sta dicendo che c’è anche una paronomasia, «’infiammati infiammar», e subito dopo anche un chiasmo «lieti onor / tristi lutti», allora io lo interrompo e gli chiedo «Perché?». E insisto: «Perché questo affollarsi di figure retoriche, proprio in questo canto, proprio nelle parole di questo personaggio che è in realtà un albero, che nemmeno dovrebbe parlare, altro che retorica, ramo spezzato da cui escono sangue e parole insieme, come se la natura si fosse messa a prendere in giro il pellegrino Dante? Perché?»

E gli dico, mentre lui cerca la sua risposta: «Leggi anche la terzina successiva». E lui legge:
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
   credendo col morir fuggir disdegno,
   ingiusto fece me contra me giusto.
Ancora peggio, sempre più retorica. Un coacervo vero di incroci verbali, il «disdegnoso gusto» (amaro piacere) e il «disdegno», l’«ingiusto … me» contro il «me giusto», suicida e quindi colpevole, ma anche innocente, perché non colpevole di tradimento. Mauro legge, spiega, mi ripete quello che io so bene di aver detto in classe, mentre leggevo, qualche mese fa. Mi dice che Dante usa una specie di linguaggio mimetico, perché Pier delle Vigne è cancelliere e poeta, un uomo che sa usare le parole, e che la sua retorica diplmatica sopravvive anche dentro un albero all’inferno.

Ma non è solo questo, mi dice: spiega che c’è una selva, in questo canto, la selva dei suicidi trasformati in alberi; dice che anche all’inizio della Commedia c’era una selva in cui Dante si era perduto e da cui era uscito grazie a Virgilio; anche qui c’è Virgilio, perché l’invenzione del morto trasformato in «rami, sterpi» era già nell’Eneide virgiliana, nel libro III. E che quindi c’è un parallelismo e un’opposizione tra le due selve, così diverse eppure così virgiliane; e quindi anche tra le due disperazioni, quella di Piero e quella di Dante. E la lingua che Dante usa vuole essere contorta come una selva, vuole imitare l’inestricabilità della selva in cui si è perduto Pier delle Vigne, per il suo «amaro piacere», suicidandosi e guadagnandosi l’eterna dannazione. Per non avere avuto il coraggio di chiedere aiuto a Dio («Miserere mei»).

E poi Mauro si ferma; e io sarei contento, perché mi pare abbia capito bene ed esposto ancora meglio. E sto quasi per dirgli: «Va bene così, Mauro, sei stato molto bravo», quando lui aggiunge: «E forse c’è un altro motivo ancora …» «E cioè?» chiedo io. «Il suicidio», mi dice lui. «In che senso, il suicidio?» (e so di non averla mai detta questa cosa, e chissà dove l’ha letta, e se l’ha davvero letta o no, o se magari è venuta in mente a lui).

«Nel senso» mi dice Mauro «che il groviglio di parole e di retorica del discorso di Pier delle Vigne è anche, a suo modo, un’immensa figura retorica del suicidio, che occupa metà canto. Come se Dante dicesse, attraverso questi versi presi tutti insieme, che anche le parole, così come la vita, possono venire tradite, deformate, ridotte a un garbuglio vizioso che le snatura, che le allontana da Dio. Pier delle Vigne ha usato la vita come Dio non può accettare che la si usi, è stato un violento contro la sua stessa vita; e adesso deve fare anche violenza alle sue parole, facendole uscire distorte, insieme al sangue, perché possano ancora dire qualcosa di vero. Parole che sono un dono di Dio, come la vita, e che Piero non sa più usare se non contorcendole, dilatandole e corrompendole.»

«Non so, prof» conclude Mauro, «secondo me potrebbe anche essere così».

E io penso di dirgli: «Non so nemmeno io, Mauro, può darsi, è possibile. O forse sembra così a noi, che siamo così distanti dall’uomo che ha scritto queste  parole e che travisiamo anche quello che a lui pareva così semplice… Non so nemmeno io». Ma non gli dico niente di tutto questo, invece. Lo guardo in faccia, gli sorrido e gli dico: «Bravissimo, Mauro». E lui è contento e io mi ricorderò chissà quante altre volte in futuro, grazie a Mauro, di questo canto dei suicidi, i quali suicidano anche le loro splendide parole.

11 commenti:

  1. io non ero così brava, a scuola. Mi limitavo a studiare quello che dovevo, senza pensare di poter aggiungere altro. Questo mi avevano insegnato: studiare da pagina a pagina, oppure tutte le date, i nomi, ma pensare, poco. Ho studiato tantissimo, ma ho pensato pochissimo, al Liceo.
    Meno male che ci sono insegnanti come te, che lasciano spazio ai pensieri dei loro alunni.

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  2. Non so perché, ma quando parli di alunni, di lezioni, di interrogazioni, di letteratura, mi sembra tutto molto meglio della scuola che ho vissuto io.

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  3. @SpeakerMuto
    Di una cosa devi tenere conto: io faccio 18 ore di lezione alla settimana, più qualche ora di riunione pomeridiana, più un'ora di colloquio con i genitori, più svariate ore di preparazione e correzione: e scrivo due o tre post alla settimana su quello che a scuola mi capita. I quali post coprono, forse, 15-20 minuti ciascuno. Tutto il resto del tempo è esattamente come te lo ricordi tu (forse peggio).

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  4. @nastja
    Interrogazioni come quelle di Mauro sono comunque un'eccezione. La maggior parte delle volte non succede niente di tutto questo: io chiedo, loro ripetono. Se chiedo una riflessione personale, spesso si lamentano.

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  5. Post molto bello, soprattutto per me che sono un dantista mediocre perche' alla mia prof. di italiano non importava granche'. Recupero pezzo pezzo, grazie anche a questi post.

    Per me, quel che dite tu e Nastja la dice molto sul valore dell'interrogazione come strumento valutativo, ma questa e' una mia polemica che non c'entra niente.

    FR

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  6. Bravo Mauro. Io ai miei studenti lo dico sempre, a lezione: la contorsione delle parole (così come degli alberi dei suicidi) è proprio la "ritorsione" contro la vita; che di per sé punta sempre in alto, semplicemente, verso il sole. Il "disdegnoso gusto" per ciò che è innaturale - così faccio notare io ai miei alunni - è qualcosa che può prendere tutti: i miei studenti, quando indugiano troppo nel "lasciarsi andare", così come i più grandi, quando non sanno accettare e reagire ai colpi della sorte (Pier delle Vigne, come certamente anche Dante: non per niente quando in quinta si arriva a Pd VI, gli chiedo sempre di paragonare Romeo di Villanova e P.d.V. ... Dante non l'avrà mica ricordato a caso, in questo canto politico, un uomo che mendica la sua vita "a frusto a frusto", ma in Paradiso brilla di luce propria...).
    E naturalmente, prof, grazie a te!

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  7. Se ti dico una cosa in amicizia, prometti di non prendertela?

    Ogni tanto mi ricordi il mio vecchio parroco: ad ogni predica aveva un aneddoto di qualcuno che andava a confidarsi (non confessarsi) su qualche argomento assolutamente inerente al vangelo letto la domenica successiva.

    Mi sembrava strano, in effetti, perché il mio parrocco non era il tipo di persona da cui andavi a confidarti. E stava un po' sulle balle a tutti.

    Ci ho messo un po' ad applicare l'idea di trucco retorico imparata al liceo (è il bella della scuola: sai tutto dei sofisti e delle prove dell'esistenza di Dio e contemporanemente non ti rendi conto di quelle stesse cose nella vita reale).

    Ogni tanto mi ricordi il mio parrocco :-) Questi aneddoti così graziosamente appropriati...

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  8. Miseria, ho scritto due volte "parroco" sbagliato...

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  9. Grande cosa quel po' di retorica.
    Però io non sono come il tuo "parrocco": da me gli alunni (solo loro, è vero, a molti altri effettivamente sto sulle palle) vengono davvero a confidarsi, soprattutto gli ex alunni. E questa interrogazione c'è stata davvero, ieri. Chiaro: non per filo e per segno, questo è un riassunto, una rilettura (ed è anche un modo per parlare di Dante senza mettermi a fare la lezioncina teorica che nessuno leggerebbe: qui c'è tutta la retorica). Però non è solo un aneddoto, insomma.

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  10. Lezione teorica o aneddoto non importa, quello che conta e' che porti Dante nei nostri salotti, uffici, negozi, letti...

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  11. Quanto sei gentile, Ste! Grazie molte...

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)