lunedì 30 settembre 2013

La vita

del Disagiato



In questi giorni ho lavorato qualche ora nella libreria di un’amica. La libreria, aperta solo da qualche mese, si trova in un centro commerciale a due passi da casa mia. In chiusura, ieri sera – la mia ultima sera in quel negozio – ho fatto quello che più o meno tutti i giorni facevo in un’altra libreria di un altro centro commerciale: ho contato soldi, ho spento le luci, ho abbassato la saracinesca, ho fatto qualche passo indietro per vedere che tutto fosse a posto, ho camminato per un corridoio e infine, alle nove e due minuti, sono uscito dal centro commerciale. Fuori c’era il buio di fine settembre. Ma non solo il buio. C’era anche una leggera foschia che sembrava volesse anticipare, come un monito o un dispetto, la nebbia invernale. “La nebbia”, ho detto a bassa voce guardando le macchine degli altri commessi. E allora, in quel momento, mi sono spaventato. Irrigidito ho pensato a me che ritorno a lavorare in un centro commerciale, a me che ancora chiudo un negozio alle nove di sera e che ancora abbasso saracinesche e guardo che tutto sia a posto e che ancora, come già ho fatto per tanti anni, percorro un lungo corridoio e esco e vedo la sera tra i lampioni, commessi in fuga con la loro sigaretta e nebbia. “No, basta buio e basta nebbia”, ho detto ancora a bassa voce. 

Poi ho raggiunto la mia macchina. E proprio lì, prima di aprire la portiera e salire, è venuta a galla la parola “vita”: ma questa è la vita. La vita è, e sempre sarà una saracinesca da abbassare, un corridoio da percorrere, un’uscita oltre porte scorrevoli, un abbraccio umido e malinconico della nebbia di gennaio, o di febbraio. Sarà sempre così, è la vita. Oppure se non sarà nebbia sara qualcos'altro, ci saranno altre versioni, altre declinazioni della nebbia. Ma sarà sempre nebbia e corridoi, non si scappa. Sono salito in macchina, ho inserito la chiave, ho acceso il motore, ho guidato fino a casa, ascoltando musica, provando a cantare parole inglesi.

sabato 28 settembre 2013

Quando parliamo di sport

del Disagiato

A me i programmi televisivi di Italia Uno non piacciono e a volte – molte volte, in realtà – questi programmi non solo non mi piacciono ma li trovo stupidi, aggressivi e offensivi. Il telegiornale di questo canale lo conoscete bene anche voi, penso: un telegiornale superficiale, sensazionalistico, patetico e a volte così spettacolare da non sembrare neppure un momento d’informazione. Però c’è una cosa che mi stupisce tanto e questa cosa è che il telegiornale sportivo dell’una e dieci (orario in cui solitamente pranzo) è fatto bene. Le immagini e le parole utilizzate per raccontare i fatti sportivi della settimana hanno in sé qualcosa di lucido ed efficace, e gli eventi subiscono un’analisi così approfondita da trasformare gli eventi stessi in dettagli utili per ricostruire e capire altro. Siccome, purtroppo, non sono abbonato a Sky o a Mediaset Premium, la televisione che mi tocca (e lo so che ugualmente ho tanta scelta) è anche questa. E quello che ho notato nel mio piccolo e triste orticello televisivo è che lo sport viene trattato con più serietà, razionalità, intelligenza e cautela della guerra in Siria o delle condizioni di salute di Pompei. Questo capita non solo su Italia Uno, ma il fatto che questo capiti su Italia Uno forse significa qualcosa. Mi viene in mente Chomsky. Noam Chomsky in un libro che lessi qualche anno fa, Linguaggio e libertà (Marco Tropea Editore, 2002) scrisse che gli Stati Uniti sarebbero un paese migliore se il suo popolo parlasse di politica come parla di football americano. 

mercoledì 25 settembre 2013

Come una volta

del Disagiato


Recentemente sono entrato in una libreria di Brescia come cliente. Non capitava da tanti anni. Non che in tutto quel tempo non fossi mai entrato in una libreria diversa da quella nella quale io praticavo il mio mestiere, ma quando ero un libraio i sensi e la curiosità erano anestetizzati dall'abitudine. Ogni volta che entravo in una libreria, ad esempio, non sentivo più l’odore della carta stampata. I libri sugli scaffali erano volumi non da consultare e sfogliare ma da valutare se erano collocati bene o collocati male, in ordine o in disordine. La deformazione professionale, insomma, mi accompagnava costantemente in qualsiasi libreria del mondo. Nella fotografia qui in alto c'è l’insegna di una splendida libreria di Valencia. Bene, quando l’anno scorso ci entrai, la prima cosa che mi dissi fu: “Adesso voglio vedere qual è la differenza tra me e loro. Voglio vedere come qui dentro lavora il personale”. Entrai come un uomo d’affari e non come un lettore affamato o anche solo curioso. 

L’altro giorno, finalmente, sono entrato in una libraria con il desiderio autentico di spulciare libri e magari, perché no, di acquistarne uno. Dopo anni, il mio ingresso e il mio naso sono stati toccati dall'odore della carta stampata che anche molti di voi ancora apprezzano. I miei occhi, dopo anni, hanno cercato di comprendere come fossero disposti i settori per meglio orientarmi e meglio assecondare le mie curiosità. “Allora essere clienti di una libreria significa questo!” mi sono detto non dando alcuna importanza alle facce dei commessi, alla pulizia del locale e alla buona o cattiva disposizione dei volumi. Ma soprattutto, l’altro giorno, in quella libreria, ho fatto una cosa che, da libraio, non facevo da tantissimo tempo. Ho cercato i libri di Erri De Luca. Seguendo un istinto sepolto da secoli, sono andato a guardare se per caso lo scrittore napoletano avesse pubblicato qualcosa di nuovo. Ripeto: non lo facevo da tanto di quel tempo che la memoria si perde. Una volta Erri De Luca era tra i miei scrittori preferiti ma poi, lavorando in libreria, è successo che ho smesso di seguire il suo passo, di mettere il mio orecchio vicino alla sua bocca. Erri De Luca ha smesso di essere quel punto di riferimento che era. Non che a un certo punto ha incominciato a scrivere male, a dire cose sbagliate o stupide, ma il fatto è che stando in libreria sono stato investito brutalmente dalla macchina commerciale che lo promuoveva: la pubblicità dei suo libri da esporre, le migliaia di copie dei suo libri da raddrizzare in vetrina e in negozio, le mail che ci avvisavano che il famosissimo e bravissimo scrittore avrebbe partecipato al programma “Le invasioni barbariche” di Daria Bignardi, le mail che ci avvisavano che il famosissimo e bravissimo scrittore Erri De Luca avrebbe partecipato al programma “Che tempo che fa” di Fabio Fazio, le mail che ci avvisavano che avrebbe, lui, partecipato al programma condotto da. E queste sono solo alcune delle “operazioni commerciali” che riguardavano e riguardano Erri De Luca (e tanti altri famosissimi e bravissimi scrittori). Quando qualche settimana fa dei politici hanno chiesto di boicottare i suoi libri (per la questione Tav) a me è scappato un sorriso. Ho pensato che quei signori chiedevano di boicottare non uno scrittore scomodo e, a suo modo, rivoluzionario, ma chiedevano di boicottare il mercato, il marketing, la pubblicità, la televisione, i soldi, il commercio. “Impossibile e controproducente”, mi sono detto. 

L’altro giorno, invece (finalmente) ho cercato i libri di Erri De Luca, dopo tantissimo tempo. Da consumatore e da cliente è come se fossi ritornato al mio posto, come se avessi scavalcato di nuovo il muro che mi separava dall'entusiasmo che avevo perduto. Mi sono accorto di essermi riappropriato dei sentimenti che non conoscevo più. Adesso, da questa parte del muro, da consumatore meno consapevole e forse meno lucido e critico, Erri De Luca mi piace ancora tanto.

mercoledì 18 settembre 2013

Non fa differenze

del Disagiato

 «È stato un pranzo in amicizia - assicura - non seguirà nessuna intervista esclusiva. Inoltre mi piace il fatto che Renzi sa stare in mezzo alla gente, non è uno snob e non fa differenze». 

Tra un commento e l’altro su Silvio Berlusconi ho letto che Matteo Renzi, il politico di sinistra che molto probabilmente presto mi rappresenterà, è andato a pranzo con Alfonso Signorini, che è il massimo rappresentante dell’espressione televisiva e culturale di Silvio Berlusconi di questi ultimi vent'anni. Magari non significa nulla, ma la vicenda, questo incontro, mi inquieta non poco. Pensavo che tra i due non ci fosse alcuna scintilla, nessuna intesa e che Renzi fosse capace, invece, a fare differenze. Mi aspettavo questo. Tutto qua.

I rimedi, le ricette

del Disagiato

Ogni giorno (oggi, ad esempio, ho letto questo articolo del grafico Riccardo Falcinelli) mi capita di leggere o sentire un rimedio o una ricetta che possa evitare la chiusura delle librerie che ancora, in Italia, non hanno chiuso. Questi, chiamiamoli così, “consigli” sono più o meno d’accordo sul fatto che le librerie, in un futuro non troppo distante, dovranno ospitare eventi, caffetteria e cartoleria per attirare gente. Non solo libri, dunque. Bello e giusto che qualcuno si preoccupi per le librerie e per quello che si può fare perché le librerie non scompaiano. Questo preoccuparsi ha, molto probabilmente, un nome: sensibilità. Scrivo solo per dire una cosa che penso da tanto tempo e cioè che una libreria che si integra con eventi, una caffetteria e cartoleria per, come scrive Falcinelli, “allietare una passeggiata” non è più, secondo me, una libreria, ma qualcos'altro. Una cosa che non è né più brutta né più bella: solo una cosa diversa. Farei la firma, oggi, per lavorare in un negozio che vende eventi, caffè, penne e, già che ci siamo, strumenti per fare letteratura. Però dovessi mai entrare in un negozio così, entrerei sapendo che non sto entrando in una libreria come la intendevo (la intendevamo?) fino a poco tempo fa e cioè un luogo dove i libri hanno la capacità di separarsi e separarci da tutto il resto. Separarsi per poter guardare il mondo con un pizzico di distacco e quindi valutarlo, criticarlo, pesarlo.

Qualche giorno fa ad un amico ho detto quello che ora ho scritto a voi qua sopra: salvare una libreria con una caffetteria significa incominciare a fare qualcosa di diverso. Ecco, lui mi ha risposto che sarebbe come mettere le zoccole in chiesa per aumentare il numero di fedeli durante la messa.

sabato 14 settembre 2013

I disoccupati

del Disagiato

Un paio di settimane fa sono andato all’ufficio di collocamento per denunciare che ho perso il lavoro e che ne cerco uno nuovo. “Vai prestissimo, che ci sarà un sacco di gente”, mi ha detto una collega che in quell’ufficio ci era stata pochi giorni prima, e così, seguendo il suo consiglio, mi sono alzato dal letto prestissimo e sono andato ad aggiungermi all’esercito di persone che se ne stavano lì ad aspettare di essere chiamate per compilare un foglio, per rispondere rapidamente a un paio di domande e per fare una firma. Come potete immaginare, eravamo esseri umani adulti con ancora il sonno negli occhi, fragili, precari, vulnerabili, un poco arrabbiati, pronti o costretti a reinventarci. Lì in fila, poi, osservavo che gli uomini e le donne che stavano con me ad attendere erano vestiti male. La maggior parte di loro indossava pantaloncini corti e ai piedi calzava infradito o ciabatte da mare, come quelle che io tengo solitamente in casa. Molti di loro avevano tatuaggi sul polpaccio o sulle braccia o sul collo. Quando qualche ora dopo ho raccontato questa cosa ad un amico, lui mi ha detto: “Dai, per favore, smettila di fare lo snob”. 

Ora, io non so esattamente cosa significhi fare lo snob ("chi ammira e imita ciecamente tutto ciò che è, o che crede sia, caratteristico dei ceti e degli ambienti più elevati", come dice il mio Zanichelli?), però vi assicuro che non volevo pensare cose “snob”. O almeno così mi pare. È solo che davanti all’ufficio di collocamento, alle otto di mattina, mi sentivo disperato, vulnerabile e fragile non perché la libreria per la quale ho lavorato per otto anni ha chiuso, non perché ho smesso di percepire uno stipendio, non tanto perché dovevo, e devo inventarmi un modo per pagare affitto, bollette e rate della macchina, ma mi sentivo in quel modo per tutte quelle persone tatuate e vestite male. Per la sciatteria. Guardandomi attorno ho pensato che se gli altri fossero stati più elegantemente disperati, più educati e seri nella loro precarietà o nella loro miseria, ecco, io in quel momento mi sarei sentito più fiducioso, meno triste e, appunto, meno precario e meno fragile. E per “eleganza” vi giuro che non intendo, come dice il mio vocabolario Zanichelli, “modo di vestire con gusto e raffinatezza”. Intendo dire…intendo dire…non lo so esattamente cosa intendo dire.

mercoledì 11 settembre 2013

Un invito

del Disagiato

Visto che la libreria ha chiuso e visto che in questo giorni mi sto impegnando a riposare ma anche a organizzare e, soprattutto, ad immaginare il mio futuro, non so quanto scriverò su questo blog. Volevo solo dirvi che chi vuole può trovarmi anche su Facebook e/o su Twitter, dove metterò - magari non proprio quotidianamente - articoli, post e parole di altri che a me piacciono o che ritengo “da leggere”. Un po' (ma solo un po' ) come succedeva, sempre qui, con il Segnapagine. Insomma, questo è un modo come un altro per non perderci di vista. 

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