domenica 12 ottobre 2014

Ha fatto la barba al palo

del Disagiato

Mi sono dimesso abbastanza volte da posti importanti e questo lo puoi fare solo, o lo puoi fare tranquillamente solo se hai una donna che sta dalla parte tua (Mario Sconcerti)

Ormai un post su Mario Sconcerti sta diventando una tassa che i miei pochi lettori devono pagare di tanto in tanto, ma non posso fare a meno di segnalarvi una lunga (radio)intervista, quasi un’ora, a uno dei miei scrittori preferiti, nella quale si dicono molte cose a mio avviso acute, dette con spirito e con serietà. La citazione riportata sopra non vuole essere un pettegolezzo decontestualizzato, ma un piccolo assaggio, se così si può dire, dell’idea che lo stesso Sconcerti ha dell’amore, visto che anche di amore e di rapporti difficili ci parla (chi scrive di ciclismo sta sempre fuori casa, in un “eterno ritorno” ma anche “in una eterna partenza”), con un po’ di confidenza e con un po’ di intimità. E poi, tra aneddoti e qualche sigaretta, discorre di frasi fatte (mai dire “ha fatto la barba al palo”), di modi di fare giornalismo, della differenza tra il giornalismo fatto dai quotidiani di carta e quello fatto dal nostro amato web e poi, ancora, dei sogni che bisognerebbe avere da ragazzi, della fatica e delle delusioni che rischia di patire chi insegna e chi impara, e altro ancora che, se avete voglia e tempo, potete scoprire ascoltando. Ah, si, dimenticavo: nell’intervista Sconcerti parla anche della partita Roma Juventus arbitrata da Rocchi. Però lo fa a modo suo, e cioè parlando di noi che parliamo di Roma Juventus arbitrata da Rocchi.

giovedì 9 ottobre 2014

Farsi poesia

del Disagiato



Qualche giorno fa, subito dopo una partita, un giornalista ha chiesto all’allenatore della Roma Rudi Garcia cosa ne pensasse del nervosismo in campo e della brutta reazione di un suo giocatore (Manolas) a un fallo ricevuto (da Morata). E sul sito che riportava l’intervista ho letto la sua risposta: “Morata ha fatto un tackle pericolosissimo ma Manolas non deve fare la poesia di se stesso”. Ecco, io ho trovato questa risposta bellissima: fare poesia di se stesso. Il giocatore non solo non doveva farsi giustizia da solo ma, soprattutto, non doveva sentirsi così pieno di dignità e umanità e forse anche sentimento da arrivare a farsi giustizia da solo. Come a dire che la poesia, in fondo, è (ha) questa capacità di definire noi in mezzo alla burrasca; la possibilità di indicare l’accaduto, di dire come stiamo. Insomma, la risposta di Garcia mi è piaciuta così tanto che ieri me la sono riletta, scoprendo, con immensa delusione, che la vera risposta dell’allenatore invece è stata questa: “Morata ha fatto un tackle pericolosissimo ma Manolas non deve fare la polizia di se stesso”. 

E allora le cose stanno diversamente, con quel ben più prosaico ”polizia” al posto di “poesia”. Ma nonostante l’errore e la correzione (in questo caso di chi ha trascritto l’intervista, visto che google cache riporta ancora la parola “poesia”) continuo a voler pensare che “fare poesia di se stesso” sia una splendida espressione e metafora (anche se me la sono inventata) per dire…per dire che a volte la poesia - la poesia ombelicale e che non chiede nulla al lettore, la poesia fatta solo per dire che si scrivono poesie – rischia di diventare disperazione, orgoglio, vanità e altre cose che hanno a che fare con la rabbia muta o con lo sfogo o la vendetta. O con la volgarità.

giovedì 2 ottobre 2014

Anche se vestite

del Disagiato

Nel bellissimo film Don Jon il protagonista tenta, dopo che qualcuno l’ha fatto riflettere, di disintossicarsi dalla pornografia, che oltre ad aver colonizzato il suo immaginario ha anche dettato i ritmi della sua vita e della vita del suo sistema nervoso. In piena crisi d’astinenza, Don Jon, diventato più acuto e sensibile, si accorge che la pornografia non sta solo sul monitor del computer di casa o del cellulare ma anche al supermercato, sulle copertine di due riviste in vendita vicino alla cassa, come quelle che, ad esempio, vediamo noi all’Esselunga, mentre aspettiamo di mettere la nostra merce sul nastro trasportatore. Lui guarda le due belle donne (donne vestite) stampate sulle copertine di Cosmopolitan e di Life Style e, segretamente e sentendosi in colpa, si eccita. 

Ogni volta che in televisione vedo le labbra di Lilli Gruber o i tacchi a spillo di Daria Bignardi a me ritorna in mente questa scena delle riviste al supermercato. Per sineddoche mi sembra che in quella faccia o in quei tacchi (ma anche sulle copertine delle riviste esposte vicino alla cassa del supermercato del mio paese) ci sia un pezzetto del discorso che potremmo fare, ad essere pedanti, sulla pornografia: come se quelle labbra gonfie e quei tacchi non fossero proprio pornografia ma fossero invece il punto d’arrivo o, non ho ancora capito bene, di partenza di un fenomeno.

martedì 30 settembre 2014

Fogli

del Disagiato



Da un mese e mezzo circa lavoro in un ufficio con altre quindici persone e qui, come potete immaginare, smisto telefonate, controllo e archivio documenti, faccio e faccio mettere firme, rispondo a domande, do indicazioni a chi ha bisogno di indicazioni e poi altre cose classiche, senza tempo, che anche voi, se non fate lavori troppo originali, conoscete bene e cioè temere i colleghi e aspettare la fine del turno per ritornare a casa. Qualche giorno fa mi è accaduta una cosa strana (almeno per me), che mi ha fatto scoprire un lato intimo che fino a quel momento non avevo ancora conosciuto. Una mia collega mi ha messo sulla scrivania un pacco di fogli dicendomi: “per favore, dovresti metterlo in ordine alfabetico”. E l’ordine alfabetico che intendeva lei era quello dei cognomi dei clienti che erano stampati nell’angolo in altro a sinistra dei fogli. L’ordine, poi, doveva contemplare le prime due lettere: AA, AB, AC e via dicendo. Io ho detto alla collega “certo, lo faccio subito” e poi ho guardato quel pacco enorme chiedendomi quale criterio usare per fare il giusto ordine e valutando, con un po' di ansia, il tempo che avrei impiegato per concludere. Insomma, ho cominciato a fare questo lavoro che, credetemi, era talmente brutto e talmente orrendo che più volte ho pensato di scappare dalla finestra per non farmi vedere mai più, per non ritrovarmi a mettere in ordine alfabetico pacchi di documenti bisognosi di cura. Ma non sono scappato. 

Mi sono messo a sfogliare, suddividere e spostare di qua e di là fogli. E mentre facevo questo, parlavo con i colleghi che mi erano vicini. E siccome il lavoro non era bello, di tanto in tanto non solo parlavo ma facevo anche il simpatico per sciogliere una tensione che c’era in me. E siccome più il tempo passava più mi sentivo frustrato, non solo facevo il simpatico ma ridevo e facevo ridere (davvero forte questo nuovo collega, diceva qualcuno) e poi, in un momento di pausa, sono andato a prendere un caffè con il mio vicino di scrivania e poi, ritornato sui miei fogli, ho desiderato non solo di prendere altri caffè con tutti i colleghi dell’ufficio ma anche di bere aperitivi, di fare quello che vuole stare con gli altri, che sa stare con gli altri, che sa fare gruppo per una causa qualsiasi. Due ore così, a sistemare fogli (e a questo punto spero di aver fatto un buon lavoro) e a comportarmi come mai, penso, mi sono comportato. Solo alla fine, solo quando i cognomi dei documenti erano messi come dovevano essere, mi sono guardato da fuori. E mi sono visto mentre parlavo e ridevo con i colleghi, mentre desideravo in maniera quasi patologica di stare e fare cose con gli altri: qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa pur di rendere quelle due ore meno tragiche, meno brutte o, non so come dire, meno estenuanti. Mi sono visto ridicolo e snaturato. 

E allora potete immaginare anche la specie di morale di questa storia o le domande che la introducono: non è che forse la nostra socialità dipende dalla qualità della nostra vita? non è che la quantità (e la qualità) di tempo che io passo con il gruppo è direttamente proporzionale alla quantità di schifo su cui giace il mio tempo libero? La mia passione calcistica, il fervore esagerato che si palesa ogni qualvolta l’attaccante si avvicina all'area, sarebbero irrilevanti se io fossi completamente contento della mia vita? Perché è chiaro che se la mia esistenza fosse paragonabile al lavoro di mettere in ordine alfabetico un pacco di fogli, allora dovrei sedermi e riflettere. Non che ci sia qualcosa di male nello stare con gli altri e nel fare gli spiritosi, ma non vorrei che il nostro stare con gli altri fosse il risultato di una scontentezza, la conseguenza di una vita infelice. Come sarebbe mettere in ordine alfabetico fogli per tutta la vita? E non è che qualcuno di quel quaranta e più per cento che appartiene al Pd, di cui Matteo Renzi giustamente si vanta, ha una vita simile a quelle mie due ore a sistemare documenti e quindi pur di sdrammatizzare ed evadere si mette in quel quaranta e più per cento? Stare con gli altri per non stare da soli. 


                                                                          ***

Vi giuro che questo post è nato per parlare di quello che mi è successo in un ufficio e non per parlare di politica. Credetemi, è solo un esempio che mi è venuto in mente ora o che, detto meglio, mi è rimasto impigliato nella mente dopo aver visto Matteo Renzi in televisione domenica sera, nella trasmissione condotta da Fabio Fazio. Su questo blog non vorrei parlare di politica ma parlare di libri e quindi di letteratura (o, come ho fatto prima, di me) non tanto perché è antipatico o difficile parlare di politica ma perché la letteratura è politica, visto che ha a che fare con le prese di posizione e con i modi di stare al mondo. Però, già che ci sono, ne approfitto per parlare, con un po' di presunzione, a quel quaranta e passa per cento e per sottolineare alcune cose, non tante, che mi hanno dato fastidio di Renzi, l’altra sera. La prima cosa che mi ha dato molto fastidio è che non appena si è seduto si è messo a parlare di un capitolo del libro di Dino Zoff (ospite poco prima di lui) come se lui avesse letto il libro di Zoff. Solo dopo, messo alle strette, ha ammesso di aver letto quel capitolo nel camerino, qualche minuto prima (l’ha letto per poter dire di averlo letto: sfacciato). Un’altra cosa che mi ha dato fastidio è che, parlando di lavoro, ha paragonato la realtà – e nella realtà ci siamo noi con i nostri fogli da mettere in ordine alfabetico – alla Apple e alle concorrenti: dobbiamo essere e fare come la Apple, che ha vinto su tutti i concorrenti, ha detto grosso modo. A parte il brutto paragone – un paragone che professionalizza la nostra condizione umana – solo messo alle strette ha ammesso di aver trovato e provato quel paragone poco prima di entrare in studio (sfacciato). Poi mi ha dato fastidio, per la sua estrema semplicità, il paragone tra l’Italia e la macchina con la batteria scarica che deve essere messa in moto. Ancora più fastidioso il fatto che lui abbia ammesso di aver pensato e provato questo esempio poco prima (sfacciato). 

Insomma, a me sembra che Matteo Renzi l’altra sera fosse consapevole di parlare a persone che hanno una vita di merda, molto simile a quelle mie due ore davanti ai fogli da mettere in ordine alfabetico. Astuto, si è preparato degli esempi da prima elementare (la macchina da spingere, il telefonino Apple e anche la sua capacità, tra le tantissime cose da fare, di leggere un capitolo scritto da Dino Zoff su Scirea) per regalarci quel sorriso mostruoso, il nostro si intende, che è il sorriso di chi intravede la speranza (che sarebbe lui: sfacciato). Forse la nostra vita non ha niente a che fare con la noia e il tedio del mettere in ordine alfabetico dei documenti, meglio così, ma l’altra sera Matteo Renzi si è rivolto a noi con la stessa ironia con cui le pubblicità ironiche si rivolgono a noi. David Foster Wallace in Tennis, Tv, Trigonometria, Tornado scrive di una famosa pubblicità della Pepsi: in una giornata caldissima un tizio apre e beve una lattina di Pepsi vicino a un microfono attirando quelli che sono sotto il torrido sole sulla spiaggia. “Pepsi, la scelta della nuova generazione”, dice lo slogan, alla fine. Questa è ironia, spiega Wallace. Cioè la Pepsi sa che noi sappiamo che la pubblicità gioca con le immagini e con le parole: le immagini fanno dell’ironia per mezzo delle parole. Non c’è alcuna scelta. Quelli sulla spiaggia, che stanno morendo di caldo e di sete, non hanno alcuna scelta. La Pepsi irride il potere delle pubblicità passate (che puntavano sulle “generazioni” e sui sentimenti”) per avene di più. Lei sa che noi sappiamo. 

Ecco, Matteo Renzi l’altra sera sapeva di fare esempi elementari e sapeva pure di essere sfacciato dicendo di esserseli preparati prima. Ma lui, proprio per questo, è diverso dagli altri. Lui è come noi. Lui ci sta abituando a questa consapevolezza, a questa sincerità primordiale, a questa sfacciataggine (gli esempi e i gesti se li è preparati prima di entrare in studio, davanti allo specchio). Lui, e magari non solo lui, irride il potere dei vecchi politici per averne, di potere. Lui sa che noi sappiamo che lui sa e bla bla bla. E intanto le nostre vite assomigliano sempre di più a quelle mie due ore in ufficio, a impilare fogli. Terribile.

lunedì 29 settembre 2014

Rimedi

del Disagiato

Che io, ho pensato poi alla fine l’altro giorno alla libreria Ambasciatori, questo De Carlo che dice delle cose anche sbagliate, che un po’ si confonde anche lui, e che si mette, in un certo senso, al servizio del libraio, e cerca, non so come dire, di guadagnarsi la pagnotta, a me ho pensato che mi piace di più, del De Carlo che era venuto tredici anni fa e che sapeva tutto lui e che suonava la chitarra e ci spiegava com’erano i tedeschi e com’eran gli italiani così se andavamo in Germania almeno sapevamo, un po’, come comportarci. (Paolo Nori)

Discutendo con un amico di libri, librerie, incassi ed ebook ho ammesso, forse per la prima volta, che oggi una libreria per avere senso deve “creare eventi” oltre che esporre e vendere libri. L’alternativa (che in realtà è lo stato presente delle cose) per il negozio è quello di essere un magazzino dove il cliente forse viene ad acquistare un romanzo e dove, forse, non succede nient’altro di interessante e costruttivo. L’unica certezza è che oggi il libraio ha tanti nemici esterni che il lettore, fuori, giudica più comodi e più economici, e che qui, in passato, abbiamo elencato già troppe volte.

Mi ha fatto molto sorridere questo post di Paolo Nori su Andrea De Carlo e il suo pubblico. Una volta De Carlo riempiva teatri, suonava la chitarra, faceva il brillante e ci spiegava com’era fatto il mondo, oggi invece – oggi che lui e l’editoria che lo ha sempre coccolato devono cercare un profilo migliore con cui mettersi in posa – parla di libri davanti a poche persone che ancora non hanno letto il suo libro e che vogliono ascoltare che cosa lui ha da dire sul suo ultimo libro. Ammetto di essere un po’ confuso, a questo punto. State a vedere che gli eventi e le attività che le librerie, e con loro le case editrici, dovrebbero organizzare dovrebbero riguardare i libri, la narrativa e gli scrittori. Ci impressiona Andrea Carlo che parla del suo lavoro e basta? Non so voi, ma a me sì. Altrimenti il racconto di Nori non mi avrebbe fatto sorridere (e soprattutto non mi avrebbe fatto riflettere). Insomma, un buon metodo di sopravvivenza per le librerie, oltre che vendere libri, potrebbe essere questo: far parlare di libri chi scrive e legge libri. Metodo rivoluzionario, vero?

martedì 23 settembre 2014

Il prezzo immenso

del Disagiato

Questa mattina ho letto che è incominciata una nuova guerra: gli Stati Uniti hanno attaccato l’Isis, le sue basi, le sue roccaforti. I giornali scrivono del conflitto con titoli e articoli che si somigliano (il mio, quello di un secondo fa, è un riassunto preconfezionato di questi articoli), citando i nomi degli alleati, indicando le radici e suggerendoci il percorso che ci ha portati fino a qui. Davanti a questi titoli ho cercato di avere un giudizio, nonostante le mie scarse competenze e conoscenze. Ho anche cercato di mettere da una parte i cattivi e dall’altra i buoni (e fare questo, chissà perché, mi è venuto abbastanza bene, senza ragionarci troppo). Poi ho smesso di pensare a questa guerra per pensare, invece, alla guerra. E mi è ritornato in mente uno dei commenti al sempre attuale scontro tra Palestina e Israele di Eva Illouz, una sociologa e giornalista che, ammetto l'ignoranza, fino a qualche giorno fa non conoscevo: 

[...] È ciò che fa la guerra. Ti fa venire un callo. Il callo è una pelle ispessita, dura, insensibile. Gli israeliani sono diventati di pelle dura verso gli altri e verso se stessi. È il prezzo immenso che si paga per essere costantemente immersi in una logica di guerra: si diventa insensibili. Quando si va in guerra, la prima volta è molto difficile uccidere qualcuno; dopo la quarta persona uccisa si diventa insensibili. Dopo tutti questi anni di guerra, gli israeliani sono diventati insensibili al significato della guerra. Non comprendono più il prezzo di una guerra costante perché non sanno più che cosa significhi vivere in pace. È la chiave per capire la cecità della società israeliana. Intere generazioni sono cresciute senza conoscere nient’altro che gli insediamenti. Conoscono Israele solo sotto forma di potenza coloniale. Per loro è normale. Ciò che alcuni israeliani percepiscono come anomalo perché sanno com’era prima, per altri è normale. È molto difficile fare capire com’è vivere in una società normale, e non in una potenza coloniale.

venerdì 19 settembre 2014

Quale parola?

del Disagiato

...un altro tratto paradossale del nostro tempo: la parola circola ovunque rivelando il suo carattere inflazionato. Drammi privatissimi trovano posto nel circo dei talk show, una cattiva retorica pedagogica sostiene la necessità infinita del dialogo: si può dire e parlare di tutto senza alcun limite. Ma in questo carrozzone impazzito di una parola che circola tanto più velocemente quanto più appare svuotata di senso, viene meno una delle conseguenze decisive nella formazione dell'individuo. Viene meno la parola. Quale? Quella che stabilisce una relazione stretta tra il dire e le sue conseguenze. Le parole che diventano "solo parole" sono le parole che hanno perduto il nesso etico che le vincola alle loro conseguenze. È questo l'effetto principale del loro svuotamento narcisistico. La parola dovrebbe comportare sempre l'assunzione soggettiva delle sue conseguenze o, quantomeno, lo sforzo della loro assunzione. La parola non è mai solo una parola, perché plasma, genera la vita. ("L'ora di lezione" di Massimo Recalcati, Einaudi, 2014). 

Toccando il luogo comune, abbiamo ripetuto quasi d'istinto (e l'abbiamo sentito ripetere, non d'istinto ma con qualche calcolo, dalle commoventi pubblicità televisive) che "oggi si comunica di più" anche grazie alla telefonia mobile e anche grazie a internet, utilissimi strumenti che hanno abbattuto remore, timidezze e confini. E quante volte alla domanda "cosa studi?" ci hanno risposto "scienze della comunicazione" e poi, ancora, parlando di editoria abbiamo evidenziato la quantità di libri stampati e a proposito degli ebook la possibilità, per tutti, di pubblicare e dire senza mediatori e costi. Penso anche al consiglio in tono di rimprovero che certa psicologia (non solo spicciola) fa alle madri e ai padri: ogni giorno dovete trovare un momento di dialogo con i vostri figli, per non lasciarli soli. Insomma, a un certo punto, a me, è venuto da chiedermi: ma comunicare che? scienza di quale comunicazione? conoscere tante lingue straniere per dire in più lingue cosa? E forse anche queste domande sono mal poste.

Nel trito quotidiano (a volte siano stanchi e deboli e distratti e superficiali) mi dimentico di dare importanza a ciò che sto per dire, al come lo sto per dire, e non perché la lingua italiana è una religione o perché dobbiamo sottometterci gratuitamente alla grammatica o venerare le leggi e le logiche che la impastano ma, magari, per un altro motivo: perché gli altri (gli altri che spesso non sopportiamo) nonostante tutto sono importanti, ci sono vicinissimi, e noi verso gli altri abbiamo una non piccola responsabilità. Mi piace pensare che ogni mia parola inneschi qualcosa, che ogni sostantivo o aggettivo che scelgo di leggere in una pagina di un libro costruisca conseguenze. Forse (ma è solo una mia illusione) assumendoci la responsabilità della parola diventiamo più credibili o ordinati e quindi l'uno per l'altro meno insopportabili. Perché poi il problema, in fondo, sono proprio gli altri, da quando ci alziamo dal letto per andare a lavorare o anche solo per raggiungere un aereo che ci porterà via, lontano dal solito quartiere. Insomma, parlare bene e con cognizione dovrebbe servire non tanto ad amare di più gli altri ma semmai ad odiarli di meno. E questo, secondo me, sarebbe già un buon traguardo.

giovedì 18 settembre 2014

Solo domande

del Disagiato



Come può una famiglia dare senso alla rinuncia se tutto fuori dai suoi confini sospinge verso il rifiuto di ogni forma di rinuncia? ("L'ora di lezione" di Massimo Recalcati, Einaudi, 2014)

Una domanda che ho letto ieri sera, poco prima di spegnere la luce e addormentarmi. E mi ha ricordato, un po’, le domande che mi facevo tanto tempo fa, quando ero un libraio, a proposito delle librerie e della cultura in Italia (le due cose dovrebbero abbracciarsi, ci siamo detti tante volte): come posso pensare a una libreria di qualità quando il mondo, lì fuori, non ha nessuna di queste qualità? come posso pretendere capacità di selezione e ponderatezza – e tante, tantissime altre cose che dovrebbero avere a che fare con l’intelligenza e l’attenzione - dagli editori ma anche dai partiti politici (dal mio partito politico) quando nessuno, o quasi nessuno, chiede che nel mondo ci sia capacità di selezione e ponderatezza?

lunedì 15 settembre 2014

Cocktail e convegni culturali

del Disagiato

Sono passati poco più di cinquant’anni da quando fu realizzato questo breve documentario (via slowforward, che l'ha proposto prima di me) sull’editoria e l’industria che la contiene e la guida, e tra le dichiarazioni di editori e consulenti ormai resi storici e famosi dal tempo – dopo tante fotografie fa senso vederli sullo schermo così vivi e pensanti - mi sono chiesto se per davvero oggi è peggio di ieri o se le cose, al di fuori da qualsiasi riflessione drammatica sulla salute della nostra letteratura, oggi siano diverse da ieri. Sarà capitato anche a voi, ma mi sono accorto che sostenere che oggi si sta peggio fa bene, o così sembra, alla salute: fa bene cercare un appiglio, poter scrutare indietro per imitare anziché guardare avanti per inventare. O forse, insisto, è giusto voltarsi per cercare l’attenzione e l’esperienza di chi c’è già stato e magari ha già sbagliato. Chissà. Sta di fatto che guardando con lucidità e imparzialità il filmato viene istintivo dire per alcune affermazioni “oggi le cose non stanno così” e, per altre considerazioni, “anche oggi le cose stanno così”. 

Si parla, a proposito di libri, di propaganda persuasiva e penetrante, di tecniche pubblicitarie, di veste editoriale accattivante, si ammette che l’editoria è vicina alle altre imprese di produzione rendendo così un libro (un libro di Cassola, ad esempio) un prodotto fuori dal terreno destinato alla cultura. Valentino Bompiani afferma che l’industria editoriale oggi (cioè ieri come oggi) cambia articolo quasi ogni giorno e che “in una casa editrice come la nostra tra novità e ristampe esce un libro ogni giorno”; Carlo Verde sottolinea che mentre la propaganda per mezzo di inserzioni pubblicitarie, di annunci radiotelevisivi, dell’organizzazione dei cocktails e dei convegni culturali appositamente indetti fa chiasso per vendere “quel libro”, la UTET invece rovescia questo processo con altri approcci e sistemi di vendita; Gian Giacomo Feltrinelli dice che è sbagliato imporre al pubblico, per mezzo della persuasione pubblicitaria, i gusti culturali e poi, facendo un po’ di conti, dice che “noi consideriamo che le spese di pubblicità non debbano superare il 7% del fatturato della casa, perché altrimenti le incidenze di queste spese pubblicitarie graverebbero eccessivamente sul prezzo di copertina e cioè sulle tasche dei nostri” elettori (elettori o lettori, non capisco bene cosa dice). Insomma, ci farebbe bene posare lo sguardo su questo pezzetto di storia anche solo per capire quante vecchie e anacronistiche sono le nostre lamentele, per comprendere, guardando dall'alto, la complessità del labirinto in cui ci troviamo.

sabato 6 settembre 2014

Hai scritto un libro

del Disagiato

Provo ad immaginare il motivo, l'urgenza, che ci spinge a scrivere un libro: per migliorare il mondo, per spiegare alla gente che quello che conta non è il successo ma la serenità, non l'apparenza ma l'interiorità. Oppure: per togliere un peso o per sbrogliare un nodo che sta in noi, e ciò implica che non si vuole migliorare il mondo ma migliorare noi stessi. Ancora: si scrive per migliorare noi stessi per poi, di conseguenza, trovare il modo per migliorare il mondo. Vi immagino a pensare e a stendere vite e personaggi (se è un romanzo) o ad allineare idee, concetti, nozioni e sillogismi (se è un saggio) di sera, dopo cena, dopo una giornata di lavoro. Le ore buie ve le prendete per rendere chiaro quello che avete da dire, per raccontare direttamente o per vie traverse quello che vi è capitato dieci anni fa o ieri. Fate il punto della situazione, con il vostro libro, per saper affrontare tutti interi il domani, il dopodomani. Scrivete per dare trama a ciò che rischia di diventare, se già non lo è, caos. Date trama per fare ordine. Certo, il rischio è quello di raccontarsi una propria verità (ci si racconta sempre una propria verità) ma quando posate la penna e vi preparate ad indossare il pigiama, lo scrivere vi sembra uno dei modi più saggi e intelligenti per spiegare o solo raccontare. Voi non siete come gli altri. Sapete pensare, sapete parlare e sapete scrivere (vi dite questa verità più volte nell’arco di un anno) quindi perché non scrivere un libro? Perché non mettere su carta personaggi che vi circolano in testa da troppi anni? Tutto questo, ripeto, per migliorare voi e magari anche chi legge. 

Poi succede che vi pubblicano e che per la pubblicazione non avete dovuto spendere neppure un euro per il correttore di bozze e per la stampa. La vostra casa editrice non è una di quelle che vi frega, è seria e forse anche famosa, ha un suo progetto culturale. Ed è a questo punto, subito dopo la pubblicazione, che dovete pubblicizzare il vostro libro su facebook, sul vostro blog (vi ricordate quando eravate solo dei blogger sfigati?), su twitter e via dicendo. Partite col dire a tutti che avete scritto un libro. Poi dite a tutti, più volte nell’arco di un mese, di mettere un like sul profilo facebook del libro che avete impiegato mesi se non anni a pensare, scrivere, correggere e ricorreggere e ancora correggere. Poi citate emozionati l’amico che vi ha citati in un suo post sul suo blog (lui è ancora fermo ai blog). Poi pubblicate la recensione che un sito di letteratura ha scritto sul vostro libro o un pezzo davvero tosto che l’Espresso o Tv Sorrisi e Canzoni vi ha dedicato. Mettete link e cercate link da mettere. A forza di link e pubblicità il mondo che con il vostro libro per qualche ora era migliorato, anche solo un poco, sta ricominciando ad essere brutto. Poi incominciate a pubblicare i commenti intelligenti che i lettori hanno scritto su Ibs o Amazon o altrove. Ne andate fieri e anche questo lo dite a tutti. E il mondo che volevate migliorare intanto continua a peggiorare. Forse era meglio stare fermi, non scrivere nulla, uscire con il cane più spesso, al giardinetto, dove ci sono quelli che non scrivono libri. 

Poi, non sapendo più cosa dire, pubblicate i commenti agghiaccianti e sgrammaticati che i lettori del vostro libro hanno scritto su Ibs o Amazon o altrove, e ridete insieme ai vostri amici di quei lettori analfabeti. Ridete e parlate del vostro libro in continuazione per migliorare il mondo. La casa editrice vi scrive per dirvi che le vendite “sono soddisfacenti”, che del vostro romanzo o del vostro saggio se ne occuperà anche Panorama, il mese prossimo. Intanto, a forza di avere a che fare con la gente, voi state peggio di prima, siete talmente stanchi che non siete stanchi, e il mondo ora diventa lo specchio sporco di questa situazione. Forse era meglio non scrivere, vi dite ancora, di nascosto da voi stessi, in bagno, mentre vi lavate i denti tra un link e l’altro, tra un like e l'altro.

domenica 31 agosto 2014

Che dire

del Disagiato

Che sia questo il vero rompicapo per tutti gli altri che se ne stanno fuori a guardare? Perché il conservatorismo va tanto forte in questo periodo? A cosa è dovuta la sua carica populista? Non può essere solo l’11 settembre, è cominciato prima dell’11 settembre. Ma da quando con esattezza la destra è stata così galvanizzata? Possibile che là fuori, per decenni, ci sia stata una Maggioranza silenziosa e reazionaria, frustrata ma atomizzata, in attesa della scintilla che desse il via? E se così è, è stato Ronald Reagan quella scinitilla? Ma gli anni Ottanta di Reagan non avevano questo tipo di verve populista destrosa. Che sia cominciata con l’ascesa di Gingrich a portavoce della Camera, o con l’odio inebriante per tutto quello che aveva a che fare con Clinton? O che il Paese nel suo insieme si sia in qualche modo spostato così a destra che lo zoccolo duro del conservatorismo adesso si alimenta, come un uragano, dell’energia calda e vorticosa del mainstream? O è forse il contrario, che gli Stati Uniti si spostano così tanto e così in fretta verso il lassismo culturale che abbiamo raggiunto una specie di punto absidale? Forse sarebbe istruttivo cercare di guardare le cose dal punto di vista, per esempio, di un abitante del Midwest rurale, veterano dell’esercito, timorato di Dio, lavoratore indefesso. Non è tanto difficile. Immaginate di guardare attraverso i suoi occhi il mondo di Mtv e il contenuto dei videogiochi, l’oscena sessualizzazione della moda per bambini, Janet Jackson che sfoggia la sua aureola in quello che dovrebbe essere un giorno santo. Immaginate di essere lui e di dover spiegare ai vostri figlioeletti cos’è il sesso orale e cosa c’entra con un presidente degli Stati Uniti. Réclame per l’allargamento del pene e Puttane Calde e Bagnate spuntano dal nulla sul computer di famiglia. A scuola i vostri figli studiano la Seconda guerra mondiale e il Vietnam in termini di internamento dei giapponesi e degli orrori di My Lai. Gli omosessuali pretendono di sposarsi in chiesa; il vostro medico si trasferisce perché non può permettersi l’assicurazione legale; gli immigrati clandestini vogliono prendere la patente di guida; le élite di Hollywood massacrano l’America e ci guadagnano milioni; il presidente viene ridicolizzato perché legge la Bibbia; i preti si trastullano coi bambini a destra e a manca. Merda, il Paese ha subito un attacco diretto e la gente non vuole sostenere il comandante in capo. Immaginate per un momento che non sia sciocco vedere le cose come quest’uomo. Quale messaggio convincente, interessante, utile possono offrirgli il centro e la sinistra? Possiamo sopportare di ammettere che abbiamo in effetti contribuito a fargli percepire “Noi siamo meglio di loro” non come perverso e spaventoso ma come rincuorante e riscattante e vero? Se così è, che si fa adesso? (da "Commentatore", in "Considera l'aragosta" di David Foster Wallace) 


Qualche giorni fa, in televisione, ho sentito Matteo Salvini dire che gli immigrati dovrebbero essere fermati e rispediti a casa loro, anche se casa loro non ha un tetto, si trova nel bel mezzo di una drammatica carestia, nel cuore di una zona di guerra dove la morte non è solo riflessione letteraria e filosofica ma una probabilità quotidiana. In me è scattata la solita gara intellettuale (una gara che ho vinto per tanti anni, con facilità: e questa facilità doveva darmi da pensare) con il leghista, ma l’altra sera, come oramai da tante sere, il pensiero una volta elastico e determinato si è messo a zoppicare e a temporeggiare. Perché quei poveri cristi dovrebbero venire qui, nel mio paese? Cosa posso dare io a loro? Sono davvero così pronto a sacrificare le mie ore di serenità (ore difficilissime da trovare e addomesticare) per accogliere e sfamare? Da un po’ di tempo, appunto, non so ribattere ai Matteo Salvini. Dobbiamo ospitare perché… perché… E così su tante altre questioni non so più che dire. Sebbene sia un esercizio sciocco e magari anche vanitoso, sempre più spesso guardo il mondo con gli occhi dell’"abitante del Midwest", e mi do ragione, e do ragione a Matteo Salvini. Ritornato in me, sensibile gentile altruista, non solo mi accorgo di non avere le risposte e gli argomenti – trovo che queste mancanze non siano così gravi – ma anche di essere lontano dagli strumenti e dai percorsi tramandati per avere risposte e argomenti: argomenti lucidi, sensati, che tengano conto della complessità e degli insidiosi effetti ottici della vita se la vita viene guardata da più angolazioni. E allora sì, questa assenza di strumenti mi pare grave, molto ma molto grave. Cosa sta succedendo?

lunedì 30 giugno 2014

Come l'ultimo Orazio

del Disagiato

Ricordate la vecchia leggenda romana? Siamo nell’epoca di Tullo Ostilio re, più o meno 600 anni prima di Cristo. Fra Roma e Alba Longa infuria l’ennesima guerra. Stanche di morti e sacrifici, le due città decidono di giocarsi la guerra in un ultimo scontro. A nome di tutti si affronteranno tre fratelli gemelli romani, gli Orazi, e tre albani, i Curiazi. Per Roma sembrava un massacro definitivo, ma l’unico Orazio rimasto in campo ebbe un’idea favolosa. Si mise a correre come se scappasse lungo una strada stretta stretta; i Curiazi gli si gettarono dietro quasi ciecamente. D’improvviso l’Orazio si fermava, si girava e infilava con la spada il Curiazio che lo stava inseguendo più da vicino. Sorpresi dallo stop repentino e certamente non astutissimi, i Curiazi a uno a uno andarono a scagliarsi addosso alla sapiente spada dell’ultimo Orazio. 

Questo breve racconto non è tratto da una pagina di un libro di storia ma dalla pagina di un libro di Mario Sconcerti (sì, ancora lui, scusate) che parla di calcio e che tenta di spiegare perché la tattica del catenaccio all’italiana – un mediano che arretra sulla linea dei terzini - provocò negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso molto malumore in tutto il mondo. Perché mai una squadra che si è difesa ha vinto contro una squadra che ha attaccato? Il più forte vince, o no? “Il punto centrale è aspettare gli avversari nella propria metà campo, costringerli ad attaccare in spazi molto ristretti e conquistare alle loro spalle spazi enormi per il contropiede”. Insomma, grosso modo come fece l’ultimo Orazio, con la sua spada, la sua corsa e la sua astuzia.

sabato 14 giugno 2014

Evviva, ha colpito ancora

del Disagiato

Più di un anno fa, in un mio post, fui molto contento di parlare di Mario Sconcerti e di calcio. Ecco un brano:  
Mario Sconcerti, naturalmente per chi ancora non lo conoscesse, è un giornalista e opinionista sportivo. Scrive, poco, per il Corriere della Sera ed è ospite fisso di un programma sportivo di Sky Sport. Ha scritto libri bellissimi: Storia delle idee del calcio, La differenza di Totti e, uscito poco più di un mese fa, Il calcio dei ricchi. Ci sono poi anche altri libri (uno su Roma e Romolo, che nulla c’entra con lo sport) e, come avrete capito, scrive di calcio. Solo che non scrive esclusivamente di calcio. Il pallone, i giocatori, le tattiche, gli schemi, i soldi e le scelte sono, nei libri di Sconcerti, una conseguenza delle scelte che abbiamo fatto noi, più o meno tifosi, nel mondo, nella nostra società, nella nostra casa e nella nostra stanza. Nei suoi libri si parla di noi come punto di partenza per arrivare sui campi da gioco, sugli spalti, sulle panchine. Una nazionale di calcio è, sostiene Sconcerti, come è il suo popolo: gioca in difesa (ad esempio la Germania che esce dalla guerra) se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso (il Brasile), se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. Il calcio nasce e fiorisce dove c'è il mare, dove ci sono commercianti e marinai. 

Oggi Luca Di Ciaccio, sul suo blog, pare contento di scrivere un post: su Sconcerti, il calcio e altre cose. Ecco un brano. 

Sto leggendo un libro. Il pallone, i giocatori, le tattiche, gli schemi, i soldi e le scelte sono, nei libri di Sconcerti, una conseguenza delle scelte che abbiamo fatto noi, più o meno tifosi, nel mondo, nella nostra società, nella nostra casa e nella nostra stanza. Nei suoi libri si parla di noi come punto di partenza per arrivare sui campi da gioco, sugli spalti, sulle panchine. Una nazionale di calcio è, sostiene Sconcerti, come è il suo popolo: gioca in difesa (ad esempio la Germania che esce dalla guerra) se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso (il Brasile), se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. Il calcio nasce e fiorisce dove c’è il mare, dove ci sono commercianti e marinai. Forse ha ragione chi sostiene che una nazionale di calcio è come è il suo popolo: gioca in difesa se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. 

È la terza volta - e chissà, magari anche di più - che indovino cosa Di Ciaccio scriverà in futuro.

Aggiornamento: Il post ora è stato cancellato dal suo blog, ripulito e ripubblicato. L'originale lo potete comunque trovare qui.


martedì 10 giugno 2014

Per un cappello

del Disagiato




(Attenti, racconto come va a finire, o quasi, un lungo viaggio)

Nel film Nebraska di Alexander Payne un anziano signore toccato dalla vecchiaia e anche un po’ dall’alzheimer si convince di aver vinto tantissimi soldi: un milione di dollari. Una lettera lo informa che per ritirarli deve raggiungere un ufficio di Lincoln, nello stato del Nebraska, e così il vecchio uomo, in stato confusionale, si incammina lungo la statale trafficata della sua città. Ma proprio quando il suo lungo viaggio ha inizio, un poliziotto lo intercetta, lo ferma e lo porta tra le braccia del figlio, che cerca di spiegargli che quella lettera in realtà non è un avviso importante e unico ma solo un foglio pubblicitario che chissà a quante persone è arrivato. Ti fanno credere di aver vinto ma in realtà vogliono propinarti un abbonamento, dice il figlio al padre. Ma il padre insiste di aver vinto. No, non hai vinto, invece. Certo che ho vinto e voglio assolutamente ritirare quel milione di dollari, per potermi poi comprare un compressore e un furgone. Contro il parere della madre e del fratello, il figlio decide di accompagnare il padre in questo lontano ufficio, di intraprendere con lui un lungo e inutile viaggio. E in questo viaggio, come in tanti altri film del genere, ai personaggi capiterà di conoscersi un po’ di più, di scoprire il perché di certe scelte, il motivo di certi umori e rancori che durano tutta una vita. Nel frattempo, però, il figlio continua a spiegare al padre che quel milione di dollari non esiste. E il padre insiste che il milione di dollari è là ad aspettarlo. No, non è vero. Sì, è vero. No. Sì, invece. E insomma, l’anziano uomo nonostante l’evidenza si costruisce una sua realtà, fino a quando la segretaria del famoso ufficio di Lincoln non gli dice che il milione di dollari non c’è – “mi dispiace ma il suo numero non è tra quelli vincenti” - ma che se vuole può avere in omaggio un cappello o un cuscino. Rassegnato e silenzioso il padre accetta un cappello. Magra consolazione (ma il film non finisce qui). 

E io, magari sbagliandomi, ho compreso che tutto il film non parla di un vecchio signore ostinato e fuori di testa ma parla di noi e della strada che ogni giorno facciamo per raggiungere un lontano ufficio, il nostro milione di dollari con il quale poi comprarci un nuovo compressore e un nuovo furgone. Gli altri ci hanno avvisato: il milione di dollari non esiste. E noi a sostenere che invece quella cifra c’è, eccome. E il giorno dopo siamo noi a dire all’amico testardo la stessa cosa: guarda che il milione di dollari non esiste. Quando la segretaria offre al vecchio protagonista il piccolo premio di consolazione, mi sono commosso tanto. In quell’esatto momento ho pensato che se ci andrà bene, alla fine, ci accontenteremo di un banale cappello o magari di un comune cuscino. Quella, nonostante le nostre aspettative e convinzioni, sarà la nostra ricompensa per aver vissuto, per aver frequentato gente, per aver stretto mani, per aver detto cose vere o false. E forse dovremo accontentaci, muti e rasseganti, come il vecchio uomo di questo film. Sempre che sia vero che il milione di euro non esiste, come gli altri, con tutti i loro mezzi, ogni giorno vogliono farci credere.

giovedì 5 giugno 2014

Connettore


del Disagiato


In questi mesi ho provato a descrivere e a raccontare, spesso in maniera ombelicale, lo stato di salute delle librerie e dei librai. L’ho fatta, questa descrizione, osservando soprattutto la mia esperienza e cercando di ricavarne qualche risposta. Perché le librerie, i librai, i libri sono cambiati? Perché là fuori la cultura e le scelte delle case editrici sono cambiate. La libreria non è più un luogo di difesa o un posto che vende strumenti per guardare e giudicare il mondo perché la libreria è diventata il mondo, come il mondo. Con un certo ritardo ho scoperto che esiste un premio letterario che si chiama Prada Feltrinelli: “Nato come connettore trasversale tra moda e letteratura, il premio Prada Feltrinelli si rivolge a nuovi scrittori di talento...”, recita il sito Feltrinelli. Ecco, quel “connettore trasversale” illumina, a mio avviso benissimo, la complicità che si è creata tra un’importante casa editrice italiana – che oltretutto dovrebbe essere una casa editrice di sinistra, marxista, e incarnare un’opposizione totale alla nostra società – e una casa di moda, attenta alla superficie delle cose, al lato grezzo del mercato, al marketing. Hanno lo stesso modo, Feltrinelli e Prada, di guardare “ i segni di un mondo che cambia”, gli esseri umani, le cose e i fatti della vita? A questo punto la risposta è sì. E questo è grave.

mercoledì 4 giugno 2014

Le distanze

del Disagiato

Riporto un brano del libro-intervista Un millimetro in là di Marino Sinibaldi, che sto leggendo in questi giorni, perché mi ha fatto ripensare al romanzo di Aldous Huxley, Mondo nuovo, e a quello che un personaggio, il Governatore del Nuovo Mondo, dice a proposito della nostra felicità e infelicità: tra il desiderio e il suo soddisfacimento ci stanno i sentimenti. E per tenere a bada i sentimenti dei cittadini il Governo deve ridurre questo spazio, fino ad annullarlo: “Giovani fortunati! Non è stata risparmiata alcuna fatica per rendere le vostre vite facili dal punto di vista emotivo; per preservarvi, nei limiti del possibile, dal provare qualunque tipo di emozione”, dice il governatore. Pubblico qui le parole di Sinibaldi non tanto per dire che è meglio andare in libreria o in un negozio di dischi piuttosto che acquistare un libro o un disco in rete, ma per ricordare a me stesso che la lettura e l’ascolto, un tempo, cominciavano già prima dell'atto, andando in una libreria o in un negozio di dischi. E questo, forse, ha a che fare con l’educazione alla fatica, alla responsabilità e alla consapevolezza. 

La prima volta che sono entrato in Amazon … ho cominciato a cercare con la generica chiave “racconti” ed è uscito di tutto, dai testi di esordenti o sconosciuti fino alle raccolte degli scrittori più celebri: i racconti di Čechov, di Mark Twain, di Conan Doyle, di Virginia Woolf. E tutto costava pochissimo. Amazon aveva ovviamente già tutti i miei dati e quindi ho cominciato a ordinare nevroticamente. Ecco un’esperienza concreta dell’intreccio di gratuità (o quasi), povertà (non tutte le edizioni erano ineccepibili), velocità (bastava premere il tasto invio e il libro era qui). Ecco anche una sorta di irresponsabilità: avevo comprato almeno cinque raccolte di racconti e non avevo speso neanche 15 euro, credo. Capisci come tutto questo genera un elemento di nevrotica felicità, quasi una consumistica sindrome di Tourette: stai lì, clicchi nervosamente, prendi. L’esperienza per certi aspetti somigliava a quella che facevo da ragazzo entrando in quei Remainder dove c’era di tutto e costava abbastanza poco. Lì però sfogliavo, soppesavo, sceglievo, confrontavo. C’era comunque un dato fisico, compreso il pensiero di dove mettere i libri, come trasportarli, come riempire lo scaffale: tutti elementi di materialità che generano una specie di responsabilità, o anche solo di misura e sobrietà. Oggi invece lo scenario è una serie di prodotti gratuiti, poveri, leggeri, veloci, senza prezzo, peso e responsabilità. Puoi aprire cento siti di quotidiani, leggere vagoni di libri, visitare mille musei, ascoltare tutta la musica che vuoi senza che tutto questo comporti un qualunque movimento, uno spostamento o una spesa.

martedì 3 giugno 2014

Una rivoluzione?

del Disagiato

Ho letto questa brevissima intervista a Pierluigi Battista in cui si discute del suo nuovo libro, I libri sono pericolosi. Perciò li bruciano, degli effetti della rivoluzione della stampa e della conseguente democratizzazione culturale, rinvigorita anche dalla rete e dalla maggiore possibilità d’intervento da parte del lettore e, se ho capito bene, del cittadino. Solo una riflessione. Secondo me la vera rivoluzione del passato è stata non la possibilità di stampare e pubblicare tanto ma di responsabilizzare (e pagare) un gruppo di intellettuali che filtrasse e giudicasse ciò che si voleva venisse stampato. Questo accadeva, e un poco ancora accade, nelle case editrici. Non solo, grazie a questi intellettuali, abbiamo letto ottimi libri (alcuni sono diventati classici) ma non ne abbiamo letti altri. E per fortuna. Chissà quanti romanzi o saggi sono stati bocciati per la loro scarsa qualità. È stato questo filtro – un filtro che per mezzo di una profonda, e a volte difettosa, riflessione ha sdoganato ma anche bloccato - che ha valorizzato la stampa: certamente anche la scrittura fu una vera rivoluzione ma una riflessione sulla scrittura ha fatto molto di più. La mia sensazione (ma è più di una sensazione) è che il vero problema, oggi, nelle case editrici e nelle librerie, non è la minaccia della censura (il libro bruciato è a sua volta una buona immagine che vende libri) ma la moltiplicazione scriteriata e assurda dei libri. Questo avviene perché i progetti sono mutati, perché manca il filtro: un gruppo di intellettuali che pensa che la quantità non è la qualità, che la cultura deve prendere le distanze, perlomeno inizialmente, dal marketing.

lunedì 26 maggio 2014

Prima di cena

del Disagiato

Questo è lo splendido cielo sopra Tavira, in Portogallo, poco prima della nostra cena.




giovedì 8 maggio 2014

Forse non è una buona notizia

del Disagiato

Quasi ogni giorno leggo che prossimamente uscirà un libro scritto da un libraio sul mestiere del libraio. “Il libraio si racconta”, “Diario di un libraio”, “La libreria vista da chi ci lavora” e altre ancora sono le formule che sintetizzano l’argomento. Un punto di vista che conosco bene e che pure io ho cercato di raccontare su questo blog con passione e, ma non sempre, con lucidità. Essendo un argomento che mi interessa e che a volte mi sta davvero a cuore, non posso che essere contento che chi lavora in libreria abbia qualcosa da dire, raccontare e descrivere. Mi sembra una cosa bella, insomma. Una cosa bella, ma non una buona notizia. Se è vero che i libri sono, o dovrebbero essere, la trasmissione di un problema (non per forza da risolvere, ma anche solo da guardare in faccia per capire qual è la malattia), allora significa che i librai e le librerie incominciano ad avere una paura. Così seria da raccontarla e condividerla, appunto. Non che i romanzi, i saggi e i diari debbano per forza essere scritti da persone in apprensione, ma sono dell’idea che chi scrive lo fa sì per fare un po’ di chiarezza e per portare un contributo, ma anche per fare la cronaca di una rottura o di una seria stortura. Per dire, con urgenza e magari indirettamente, solamente quello che non va.

Ingenuamente continuo a pensare che parlare di librerie e di libri significhi anche parlare di letteratura. Franco Fortini, in Verifica dei poteri, scriveva: “Non esiste problema della poesia o della letteratura che non sia della società. Qualsiasi discorso sulla letteratura e sulla poesia che per voler essere un discorso su di un distinto respinga le implicazioni, cioè le eteronomie, è obiettivamente errore e menzogna”. Non basta questa frase a confermare la mia sensazione, ci mancherebbe, ma secondo me i libri scritti dai librai non ci dicono solo quello che sta capitando alle librerie, ai libri e ai clienti ma anche (e chissà, forse soprattutto) quello che sta capitando alla società, a noi che in libreria non ci andiamo più. Prima ci andavamo e ora invece no. Alla letteratura e alla poesia, allora, sta forse capitando qualcosa di grave, anche fosse solo un mutamento che ci dispera per il dispiacere di non veder più le cose come erano prima. Un amico, qualche anno fa, mi confessò di essere diventato talmente serio e teso con se stesso da non riuscire più a piangere. Mi disse questo piangendo. Spero di non esagerare e di non allontanarmi troppo dal cuore del discorso, ma i blog (compreso questo) e i libri dei librai mi sembrano un po’ quel mio amico. Stiamo dicendo agli altri come non affondare affondando, pubblichiamo per dire che nessuno legge più le pubblicazioni. I post e le pagine certamente rimarranno utili come una scatola nera.

lunedì 5 maggio 2014

L'alto e il basso

del Disagiato




Sono una persona pigra, lo ammetto, anche se questa pigrizia riguarda principalmente il movimento, l’attività fisica. Nella mia pigrizia faccio rientrare altre attività che hanno a che fare meno con l’avventura ma più con l’”impegno” intellettuale (messo tra virgolette, perché non so esattamente se il mio sia davvero un impegno). Ho bisogno, insomma, di stimoli interiori e non esteriori. È banale sottolinearlo, lo so, ma ognuno è fatto a proprio modo: c’è chi per stare bene ha bisogno di uscire e fare qualcosa e chi preferisce invece stare in casa e fare qualcosa. Non amo fare paracadutismo ma leggere un libro o guardare un film. Cerco quindi di fare quello che faccio al meglio, e cioè di guardare buoni film e di leggere buoni libri, che nella mia pigrizia, detto terra terra, mi facciano crescere interiormente o che mi diano una rotta. 

Ho notato, però, di avere un problema: faccio fatica a capire quali sono i libri che vale la pena leggere e quali no; quali film meritano il mio tempo (che passa e diminuisce sempre di più) e quali invece sono da tralasciare. Colpa mia, che non ho ancora l’intuito spontaneo e la giusta attrazione verso la qualità e il giusto. Ma colpa anche dei giornali, delle riviste e dei siti che quotidianamente leggo, che con la stessa professionalità, e a volte lo stesso entusiasmo, discutono di film o libri di qualità e di film o libri adatti solo al divertimento e all’intrattenimento. È come se vivessi nello spazio, dove l’alto e il basso, infiniti, hanno poco valore, perché manca un soffitto, un pavimento: le cose ti girano attorno e basta. Mi fido solo degli amici, della loro parola, perché grosso modo sono come me. 

Per il resto navigo a vista. Il sito Il post, come ha detto giustamente Giuseppe Lipari ieri, “si è ritagliato una funzione che non fa nessun altro giornale ormai: spiegare come sono andate le cose”, argomentando con lucidità e competenza, evitando titoli ruffiani e truffaldini. Ma Il post, solo per fare un esempio, parla dei Simpson e di Bergman allo stesso modo, come se fossero degni dello stesso scaffale. Uguale uguale a Matteo Renzi che mesi fa ha dichiarato che i Simpson “sono più significativi di mille trattati di sociologia”. E allora, in modo confuso (perché sono confuso) mi chiedo se tutto è adatto a spiegare e interpretare il mio mondo. Quando leggo l’Unità, il Corriere, Il Giornale di Brescia vedo la stessa chiarezza e la stessa mancanza di gerarchia del Post. Mi sembra che ovunque, al di là del mio davanzale, ci sia un unico scaffale, dove c’è tutto. L’altra sera, all’Olimpico, il tifoso che dettava i ritmi del dramma calcistico era tatuato (solo di più) come chi, poi, ha cantato l’inno nazionale. E questo è quello che mi ha stupito della vicenda, nella rigidità della mia riflessione. Fatico a capire cosa è bene e cosa è male, cosa sta sopra e cosa sotto, cosa vale la pena prendere dalla rete e cosa invece rimettere in mare.

giovedì 1 maggio 2014

Il contenitore

del Disagiato

Dopo che in questi giorni il gesto di Dani Alves – che ha mangiato una banana gettatagli in campo da un tifoso razzista – è stato ripetuto da tifosi e sportivi in segno di solidarietà, Michele Serra, da uomo di sinistra, riflette invece brevemente sul tifoso razzista e sul suo disprezzo. Io a questo punto (e con la consapevolezza che queste righe non sono assolutamente necessarie) allungo la catena della riflessione pensando al calcio e a quanto questo sport ha in questi anni letteralmente colonizzato le nostre menti e le nostre anime (se mai esiste una vita interiore). Il calcio ci ha invaso, insomma: Dani Alves, il Barcellona, il marchio Nike, gli sponsor, i palloni fabbricati o cuciti chissà dove e da chissà chi e via dicendo.

martedì 29 aprile 2014

Non di come vivrà

del Disagiato




Giorgia Meloni ieri ha detto che Berlusconi avrebbe meritato la grazia di Giorgio Napolitano e che l’ex premier, accusato e condannato, andrebbe battuto “sul consenso della gente e sul piano della politica”. Giusto, quindi, per la Meloni, che Silvio Berlusconi continui a fare politica: perché ci sono ancora cittadini disposti a votarlo. Avrebbe, anche lei, ben accettato la grazia, quindi. Trovo che non ci sia nessuna corrispondenza tra il fare politica e i possibili voti. Non perché esiste chi può votare un fuorilegge deve di conseguenza comparire nel recinto della politica un fuorilegge disposto a farsi votare. Se c’è qualcuno disposto a votare un pazzo criminale non significa che un pazzo criminale debba stare in parlamento. Le parole, invece, di chi si è lamentato - dopo la sentenza di qualche settimana fa - che Silvio Berlusconi è già stato graziato con una pena leggera e non pesante – una pena che rappresenti il male che ha fatto, per intenderci – mi ha fatto ripensare a un articolo per me importante e bellissimo, Lasciate che Priebke torni a casa sua, di Adriano Sofri su Priebke, pubblicato da Repubblica il 5 marzo del 2004 (un altro discorso, non molto diverso, parte da questa lettera e si allarga sul suo libro Chi è il mio prossimo, Sellerio, 2007). Perché non mandare l'ex nazista a casa, vicino alla moglie malata, invece di tenerlo agli arresti domiciliari a Roma? Perché incatenare un uomo ormai vecchio e innocuo a questo modo? Riporto un lungo brano (abbiate pazienza) della lettera: 


Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Priebke fosse stato rimandato a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che uomo sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali condoglianze o perdoni accetti o rifiuti di pronunciare. Riguarda lui. Forse riguarda i parenti delle vittime, ammesso che diano peso a ciò che lui dice o tace: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che uomo sia, ma che sia un uomo: un vecchio uomo innocuo e superfluo per chiunque, se non per la propria vecchia donna e per sé. Nessun calcolo politico, storico, giudiziario è più pertinente, se non la constatazione della protratta e provvisoria e imbarazzante esistenza in vita di un uomo. Così pensavo, anni fa ormai. Non ho mai cambiato quella opinione, e caso mai, il tanto tempo che è trascorso l' ha rafforzata. Sono venute da me le persone impegnate alla difesa e al sostegno a Priebke, mi hanno annoverato fra i destinatari di iniziative pubbliche - libri memoriali, cassette... Non ho letto i libri, non ho guardato le cassette. Non mi sembravano importanti per il punto in questione. Nella sua lettera al tribunale che lo giudicava, Priebke evocò l' atomica di Hiroshima, il bombardamento di Dresda, le fosse di Katyn: quel repertorio di orrori bastavano ad assolvere Priebke agli occhi di Priebke per una bagattella come le Fosse Ardeatine. Il vecchio nazista non farà più a meno di questo modo di pensare. Ma che cosa pensiamo del suo destino futuro non può aver niente a che fare con lui, la sua faccia, le sue parole pubbliche, i suoi sentimenti segreti. è affare nostro. Lui aveva 33 anni alle Fosse Ardeatine, ha ora novantadue anni, e quasi altrettanti ne ha la sua moglie malata. Non si tratta di sapere come e dove vivranno, ma dove e come moriranno. Se vogliamo che la notizia, sempre più imminente, ci dica che è morto in un arresto domiciliare romano, o in una casa lontana sua e della sua donna. Nel primo caso pochi ne proveranno una gioia, e sarà comunque amara, molti ne proveranno solo un disagio, a tanti non importerà niente. Io preferisco che se ne sia già andato, che muoia a casa sua. Che qualcuno gli abbia detto, a quel suo viso impietrito: «Se ne va a casa!». Le persone della comunità ebraica romana scusino la mia indiscrezione, ma mi piacerebbe tanto che fossero loro a dire che non è questo che sta loro a cuore, il titolo di ergastolano e il luogo nel quale Priebke lasci questo mondo. E benché il perdono sia un sentimento e un gesto meraviglioso, non è neanche del perdono che si tratta qui, ma di voltare le spalle e il viso alla scena nella quale si consumerà il tempo estremo di uno che si prestò a essere un odioso nemico. Anche di Walter Veltroni sono amico abbastanza da dirgli che una manifestazione in favore di Priebke, qualunque ignobiltà possa esservi inalberata - per esempio, un manifesto col suo nome e il mio - merita un' alzata di spalle, non una mobilitazione per impedirla. Non sarà una vergognosa giustificazione del militare che obbedisce agli ordini a procurare o inibire una misura di umanità nei confronti dell' antico nazista. Né è consolante che anche su questo si riproduca la fedeltà dei partiti alla propria geografia e demagogia, magari quella geografia riaggiustata per la quale la sinistra dà per imprescrittibile una persona e non un reato, e la destra la scavalca in intransigenza, perché così vogliono i tempi. Si chiede la grazia per Priebke: non so né se sia giusto, né se sia saggio. Penso però che anche fuori della grazia uno Stato abbia risorse legali per trasformare degli arresti domiciliari in Italia per ragioni di età e di salute in un' espulsione a un quartiere di Bariloche… 

Non fraintendete, non ho alcuna possibilità e voglia di accostare il nome di un criminale nazista a quello di Silvio Berlusconi (e poi Berlusconi non è ancora così anziano come lo era Priebke durante il suo processo), ma i toni che spesso leggo sui giornali, o in generale in rete, sono quelli di chi sta accusando un criminale nazista. Per me, comunque, non fa alcuna differenza: entrambi sono o, nel caso di Priebke, sono stati miei vicini di casa, di pianerottolo. Anche se il perdono è un gesto meraviglioso, qui non si tratta di perdono, però. Si tratta, secondo me, di valutare la realtà da persone non arrabbiate o vendicative. Appunto: non si tratta di che uomo sia Silvio Berlusconi, ma che sia uomo; non si tratta di sapere come e dove vivrà, ma come e dove morirà. Voglio pensarla così per non essere o diventare un essere umano cattivo, sia che io stia parlando di un semplice ladro di pecore sia che stia parlando di un criminale nazista.

martedì 22 aprile 2014

La brutta realtà

del Disagiato

Ieri sera ho visto Don Jon, un film dell’anno scorso di Joseph Gordon-Levitt. Come ho già fatto in passato con altre pellicole, vi consiglio di guardarlo anche se il film non è dei migliori ed è, anzi, sporcato da difetti non trascurabili: è maschilista e i dialoghi sembrano scritti da un balordo. Però in questo film succede una cosa davvero strana e cioè che tutti questi difetti stanno solo nei primi trenta minuti, più o meno. Io volevo spegnere il lettore dvd, ma avevo come la sensazione che lo sceneggiatore (regista) facesse il ruffiano e lo stupido con una certa fretta per poter dire altro, per poter raggiungere il cuore del discorso, con un po’ più di calma e intelligenza (certi difetti, ma di altro genere, rimangono, lo ammetto). E a me, appunto, sembra che la seconda parte di Don Jon – ma forse anche prima della seconda parte – sia un altro discorso, manovrato da altri fili. Il film parla di pornografia e di sentimenti: anzi, meglio, parla della distanza tra la pornografia e la vita reale, e di come la prima agisca sulla seconda, o di come la seconda voglia farsi invadere prepotentemente dalla prima. Don Jon non ha nulla a che fare con lo splendido Shame di Steve McQueen – che fissa con sensibilità e perizia lo stesso problema - voi non vi masturbate mai davanti allo schermo del computer (e quindi la questione non vi riguarda), ma se avete un’ora e mezza a disposizione provate ugualmente a dargli una possibilità. 

martedì 15 aprile 2014

Una virgola

del Disagiato

Perdonatemi la noia e l’ostinazione (ve lo chiedo sinceramente) ma da ieri, dopo la parodia di Beppe Grillo, in rete si sta moltiplicando la versione, diciamo così, fallata della poesia che introduce "Se questo è un uomo". Nel verso 19, Coricandovi alzandovi, non c’è nessuna virgola (e a fine verso c'è un punto e virgola, non un punto). O almeno non c’è in nessuna delle tre edizioni che ho qui in casa. Quindi: o sbagliano i miei libri o sbagliano Beppe Grillo e il sito da cui lui è partito (e quindi Grillo non dovrebbe fidarsi tanto della rete, come dice spesso ad alta voce; invece faceva bene ad affidarsi ai libri, che nonostante tutto hanno ancora un po' di autorità). Lo so che è solo una virgola e so che la gravità (se mai c’è una gravità) della situazione non è certo su una questione di punteggiatura, però, solo per correttezza e un pizzico di passione personale, mi sembra più che lecito sottolineare che in queste ore si sta facendo un copia incolla curioso e indicativo. Sempre che non sia io a sbagliare, ovviamente.

lunedì 14 aprile 2014

"Stando in casa..."

del Disagiato

Tra i versi che anticipano e introducono il libro Se questo è un uomo di Primo Levi ce ne sono tre che mi emozionano particolarmente. Uno è più, diciamo così, vicino all'emozione:

Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno. 

Quando leggo "come una rana d’inverno" mi si ferma un po’ il cuore, come immagino a molti di voi, per una pena immediata e comprensibile che allarga i suoi confini. E poi ci sono altri due versi che trovo potentissimi:

Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi. 

Ecco, spero di dirla giusta, ma mi sembra di sentire proiettili e tragedia nel primo e nel secondo verso, non per una presenza (della t e delle d che battono) ma per un’assenza: l’assenza della virgola. Provo ad aggiungere una virgola a ciascun verso: Stando in casa, andando per via, / coricandovi, alzandovi. Mi sembra che i versi, così, siano meno o per nulla efficaci. Non sono la stessa cosa.

Cosa manca?

del Disagiato

Il blog Giramenti qualche giorno fa ha presentato un breve elenco di libri “stranamente in sconto al 60%”. “Stranamente” è ironico, ovviamente, visto che i titoli e i contenuti di questi libri sembrano dichiarare sin da subito un tragico insuccesso editoriale: Perché non mangiare gli insetti?; I porci comodi. Vita, morte e miracoli del porco; Decoupage. Regali per lui, e gli altri titoli li potete leggere voi per farvi un’idea di quello che quotidianamente (credetemi, quotidianamente) arriva dentro le scatole che i librai devo aprire. Premetto che tutti i tentativi delle piccole o grandi case editrici di iniettare nel mercato libri “curiosi”, “particolari”, “originali”, “alternativi” sono ben accetti. Le librerie è giusto che abbiano sui loro scaffali qualcosa di diverso ed è giusto, per fare un esempio, che il signor Alderton David abbia la possibilità di scrivere e pubblicare un corso di linguaggio felino sui gatti: perché ha fatto delle ricerche, perché ha studiato anni e anni, perché è stato un attentissimo osservatore, perché ha analizzato e confrontato e perché, soprattutto, aveva voglia di scrivere un libro su un argomento che gli stava a cuore. Siamo in molti a voler scrivere un libro, a mostrare agli altri quello che abbiamo dentro e quello sappiamo fare o dire. E quindi. 

Suonerebbe antipatico dire che le case editrici sono miopi e che dovrebbero valutare decisamente meglio la qualità di quello che pubblicano, per gli esiti culturali ma anche per quelli commerciali (le case editrici e le librerie devono far tornare i conti, giustamente). Suonerebbe antipatico se non fosse che i libri che meritano o meriterebbero molta più attenzione e maggiore permanenza sugli scaffali vengono letteralmente sommersi dai libri “curiosi”, “particolari”, “originali” e “alternativi”, con lo spiacevole risultato che in libreria silenziosamente entra il caos, chiaro prolungamento dell’abbondanza. È giusto dare spazio a tutti? Se il prezzo da pagare è troppo alto molto probabilmente no, non è affatto gusto. Qualche giorno fa ho letto le prime pagine del libro Il caso Cobain. Indagine su un suicidio sospetto, pubblicato dalla casa editrice Chinaski Edizione. La lettura parziale di questo titolo mi proibisce di fare una recensione approfondita e dettagliata, ma vi posso dire (e un pochino dovete fidarvi) che il libro è oggettivamente sconclusionato e scritto molto male. Un libro che verrà presto dimenticato ma che intanto ha ingolfato certe arterie che avrebbero potuto dare più respiro e movimento all’argomento e a chi questo argomento lo ha trattato con più professionalità e lucidità. 

Secondo me tra l’idea di uno scrittore o casa editrice e la pubblicazione di un libro manca, spessissimo, una cosa sola: un essere umano intelligente, quello che dice, grazie alla sua cultura e onestà intellettuale (anche se non sempre le due cose stanno assieme) “questo libro fa schifo” o “questo libro non lascerà alcuna traccia”. Mi fa sorridere che per promuovere la lettura o per salvare le librerie ci inventiamo certi festival o certe iniziative accattivanti - che è giusto che ci siano, ci mancherebbe - quando basterebbe all’interno del sistema letterario la presenza di un uomo intelligente. Di uno che sappia, dopo aver studiato e faticato, che cosa è giusto e cosa è sbagliato, che cosa potrebbe trainare quella che noi continuiamo ostinatamente - e non sempre vedendoci chiaro - a chiamare cultura e che cosa, invece, è sterile o inappropriato. 

martedì 8 aprile 2014

Quanti anni abbiamo

del Disagiato




Qualche mese fa ho visto tre film, film d’animazione, di Hayao Miyazaki, regista (fumettista, animatore e tante altre cose) giapponese che non conoscevo e che mi era stato caldamente consigliato da un amico con queste parole: “se ti piace il cinema non puoi non conoscere i film di Miyazaki”. Per non essere da meno, e quindi per rimediare, ho visto Porco rosso (per me il più bello dei tre), La città incantata e Il mio vicino Totoro (che tenerezza Totoro sotto la pioggia, vero?). Bellissimi film d’animazione, non c’è che dire, ma la mia impressione è che le opere del regista giapponese siano adatte ai bambini più che ad un pubblico adulto, adulto come me e come l’amico che, bastardo, mi ha fatto sentire in colpa. Insomma, non riesco a capire come persone della mia età (ho superato i trent’anni da un pezzo), che ormai dovrebbero avere confidenza con un cinema molto più complesso per la profondità e per i ritmi delle storie, possano considerare capolavori questi film. Che per me, ripeto, possono essere molto divertenti e, perché no, istruttivi per i bambini, per i ragazzini. 

Sempre in passato un’esperienza simile mi è capitata con Gipi, bravissimo fumettista italiano che qualche giorno fa è entrato, con Unastoria, tra i nomi degli scrittori che potrebbe vincere il Premio Strega 2014. A parte la polemica sulla liceità o meno della sua presenza tra gli scrittori italiani (che scrivono libri e non fumetti), la sua graphic novel La mia vita disegnata male la trovai bella ma certo non veicolo così potente da riuscire a trasmettere un problema, cosa che dovrebbero fare i libri. Anche qui ho come l’impressione che le graphic novel d'autore come quelle di Gipi siano buone per chi non ha voglia o tempo di leggere, per chi, come i più o meno giovani, non ha ancora una certa capacità di afferrarsi unicamente, esclusivamente, alle parole, alla punteggiatura, ai lunghi periodi. Miyazaki e Gipi sono artisti bravissimi, ma il cinema e la letteratura stanno altrove, in zone molto più difficili da raggiungere. E per questo non riesco a fare mio l’entusiasmo di molti di voi.

sabato 5 aprile 2014

Se stiamo fermi

del Disagiato

Pubblico una bella pagina di Leonardo Sciascia rubata a un suo breve saggio che si intitola L’”Omnibus” di Longanesi (in Fatti diversi di storia letteraria e civile). Perché ritagliarla e metterla qui? Forse per accarezzare una sorta di sotterranea invidia che a volte sale in superficie, che si fa sentire quando sento dire “parto”, “scappo”, “cambio vita e paese”, “vado a fare esperienza altrove”. Così avrei voluto dire e fare io, in passato, l’altro ieri, ieri. Ma ancora nutro la bella speranza di poterlo dire domani, dopodomani, anche se difficilmente, ma chissà, questo accadrà. Ho invidiato con rabbia – una rabbia mai cattiva, mi viene da dire – i “giovani Erasmus” che sono andati a studiare fuori dall’Italia per capire l’Italia o le cose d’Italia: perché anch’io avrei voluto cambiare, lasciare, “fare esperienza”, “allargare i miei orizzonti”, perché anch’io avrei voluto avere la possibilità di uno sguardo più ampio, a “360 gradi”. Ma contraddittoriamente non ho mai creduto – ancora per invidia, per rabbia, sicuramente – a questa cosa che più ci si muove e più si capisce, che più persone si incontrano più si è aperti, comprensibili, sensibili e intelligenti. Ho viaggiato, sì, ma più o meno i miei giudizi e le mie riflessioni sulle cose e sulle persone del mondo sono partite sempre dalla stessa postazione: da qui. Da qui però possiamo fare lo sforzo di chi si mette in punta di piedi per vedere cosa succede là in fondo, dove non abbiamo potuto, voluto andare, per pigrizia, per poco coraggio. E forse è questo sforzo, questa insoddisfazione, questo tentativo a volte utile a volte inutile, che ci mette alla pari con chi invece là ci è andato, con chi si è mosso. Se non alla pari, quasi. Anzi, a volte, a me, sembra di aver visto di più. Ma lo dico per invidia, per rabbia, sicuramente: 

Leo Longanesi (1905); Mario Soldati, Dino Buzzati, Enrico Morovich (1906); Alberto Moravia, Vitaliano Brancati, Guido Piovene (1907); Elio Vittorini, Mario La Cava, Cesare Pavese (1908). Scrittori tra loro diversi, di diversa estrazione, di diversa valenza: e uso l’espressione “diversa valenza” nel senso della diversa vocazione di ciascuno a combinarsi con le “occasioni” esistenziali, storiche, culturali; e insomma con i sentimenti, le ragioni e gli errori del tempo. Ma li si può raggruppare in una specie di pleiade generazionale per il fatto, che tutti li include, del guardare altrove: ad altri paesi, ad altre letterature; più o meno avvertitamente, più o meno coscientemente, sentendo il disagio, l’angustia, la remora della condizione italiana; e cioè di quella provincialità endemica che il fascismo potenziava ed esaltava.  
E qui bisogna intendersi, anche se siamo nell’ovvio: provincialismo non è il vivere in provincia e il fare della provincia oggetto di rappresentazione, il vivere quella vita, il conoscerla e il rappresentarla: provincialismo è il serrarsi nella provincia con appagamento, con soddisfazione, considerandone inamovibili e impareggiabili i modi di essere, le regole, i comportamenti; e senza mai guardare a quel che fuori della provincia accade, senza riceverne avvertimenti, stimoli, provocazioni al pensare feconde, alla visione della realtà fermentanti. A Roma, a Milano, a Parigi, e scrivendone, e tentando di darne rappresentazione, si può essere tanto provinciali che in un paese della Sardegna, della Sicilia, del Friuli. Ora quel che il fascismo esaltava, dicendosene figlio di vigorosa salute, era un provincialismo appunto in sé appagato, in sé soddisfatto, che nulla vedesse e ascoltasse di quel che nella stessa provincia e nel mondo insorgeva a contraddirlo. E di ciò gli scrittori che abbiamo nominato, che ne avessero chiara o confusa coscienza, che si sentissero tout court fascisti o fascisti di un certo fascismo o nettamente antifascisti, sentivano l’angustia e aspiravano alla trasgressione.

martedì 1 aprile 2014

Tutti

del Disagiato



Quella che vedete sopra è la nuova pubblicità del marchio Tezenis, che vende intimo femminile in mezzo mondo. Ho voluto metterla qui e condividerla con voi perché il suo motto – sottolineato senza mezzi termini da queste ragazze in mutande e reggiseno - ha molto a che fare con i libri e con le librerie: sotto sotto ogni ragazza è una pop star. Le case editrici in questi ultimi dieci anni hanno adottato politiche molto discutibili e così i librai, i titolari delle librerie e chi, bene o male, ha avuto la possibilità e la capacità di fare o rappresentare la cultura italiana, per mezzo dei libri stessi o della televisione. Abbiamo sbagliato in tanti, e tanto. Se i lettori diminuiscono e le librerie chiudono non significa che siamo dentro a un disastro, ma che siamo davanti alla prima o seconda pedina del domino che farà cadere tutte le altre, a catena. Rimango del parere, parere che si sta facendo convinzione, che chi oggi si sta preoccupando per il destino delle librerie e della letteratura (spesso, ma non sempre, queste due cose vanno assieme) ha un nemico molto più spietato degli errori che i librai e le case editrici hanno commesso fino ad oggi. Non è Tezenis, il nemico, ma la diversità sempre più impressionante tra quello che noi, ansiosi e preoccupati, vogliamo e quello che vuole la maggior parte della gente; tra quello che accade e si propone in libreria e quello che accade e si propone di fuori, nel mondo.

Lo so, le pubblicità adatte alle ragazze e ai ragazzi sono sempre esistite, però mi sembra (e aspetto di venir smentito) che mai come oggi siano state così pressanti, diffuse o addirittura ubique le tecniche per far sì che sotto sotto ogni ragazza possa essere una pop star. Tutte le ragazze possono sognare, in un sogno ben alimentato quotidianamente, di diventare come queste, dello spot: belle, energiche, divertenti e divertite. Naturalmente non è così. Abbracciata acriticamente questa convinzione indotta, a un certo punto della vita sbatteranno contro il muro, violentemente, senza alcun riparo. La verità è l’opposto di quanto dice Tezenis: la verità è che sotto sotto tutte le ragazze stanno escogitando un modo per non diventare come le loro mamme e i ragazzi come i loro padri. Ma la realtà è lì che li aspetta. Noiosamente mi faccio la stessa domanda di sempre: in un mondo così, quale spazio dare ai libri? Quale e quanto spazio dare a una libreria? Provo a rispondere: nessuno. Non è tutta colpa delle scelte fatte da chi fa e vende libri, questo volevo sottolineare. La realtà è più dura ancora, e il nemico molto più forte, per chi ama l’odore della carta e le belle parole. A Brescia, e nei centri commerciali di Brescia, i negozi Tezenis sono pieni, le libreria sono vuote: perché i librai, le librerie, i libri e quindi la letteratura, non promettono alcuna speranza, un certo tipo di gioia o modo di essere. Non promettono nulla di interessante e, soprattutto, di immediato. 

giovedì 27 marzo 2014

Dimenticarsi

del Disagiato


In rete, e in passato anche su questo blog, ho scoperto con molto piacere - e lo dico distante da qualsiasi ironia, ironia che rischierebbe di rendere poco credibile e seria questa riflessione – che c’è più gente con una fortissima passione per la scrittura che per la lettura. Questa passione va, a parer mio, rispettata, perché è anche grazie al mio e al nostro rispetto che chi ha passione riesce ad andare avanti, a non mollare, a inseguire i propri sogni. Il sogno di cui parlo – e continuo a fare riferimento a quello che leggo sul web e a quello che sento dire da conoscenti e amici – è quello di scrivere e pubblicare un libro. Sono contento che esista la passione e che ci sia qualcuno disposto (d’altronde è la sua vocazione) a difenderla con tutte le armi che ha a disposizione, poco o tanto micidiali che siano. Mi sono però accorto di una cosa e cioè che spesso chi ha passione e chi vuole inseguire il proprio sogno finisce per diventare una persona ottusa, ostinata, lanciando la propria vita verso lo smarrimento, con tanto di rincorsa.

La mia impressione è che la passione e la troppa fedeltà ai propri propositi portino alla cecità e alla nevrosi. I sogni non trasformano un brutto libro (la maggior parte dei libri di chi mi dice di voler diventare scrittore è, secondo me, mediocre) in un bel libro. I libri continuano a essere illeggibili, nonostante l’autore nella vita abbia un sogno, nonostante nella vita non sappia fare altro, non voglia fare altro. A un certo punto le energie impiegate, il più delle volte inutilmente, per raggiungere la metà dovrebbero portare un po’ di stanchezza, un po' di silenzio, un po’ di voglia di fare altro. Anche solo per una breve pausa. Un mattino, secondo me, dovremmo alzarci dal letto senza le nostre passioni e i nostri maledetti sogni, non per indifferenza ma per troppa passione. Mollare quello che sempre abbiamo voluto fare, o dire, per troppo sentimento, per ingovernabile amore. Forse, questa è la vera passione: talmente tanta da non saperla più dire, da non volerla rendere pubblica. Solo per noi, mentre facciamo altro.

domenica 23 marzo 2014

A vedere sempre le cose a peggio

del Disagiato




Magari in questi anni mi sono perso qualcosa per strada, ma la mia impressione è che in Italia – qualcuno dice che è la patria, o tra le patrie, del calcio – non c’è stato ancora un regista così abile da fare un bel film sul calcio, come negli Stati Uniti hanno fatto con il football o con il baseball. La colpa, forse, è del calcio stesso, uno sport che non riesce a farsi raccontare e descrivere dal cinema. O forse, più semplicemente, i registi italiani non sono ancora capaci a raccontare lo sport che la maggior parte degli italiani ama o subisce (ama e subisce). Mi sembra che un film quasi decente – secondo me una valida recensione, sul sito Ondacinema, è questa – sul rugby sia invece comparso. Si intitola Il terzo tempo e il regista è Enrico Maria Artale. Ripeto, non è un film splendido, o assolutamente da vedere, per il motivo che allo sport si intrecciano una storia d’amore (a mio parere un vizio del cinema italiano è quello di metterci sempre, ovunque, una storia d’amore) e una storia di riscatto, rendendo così il tutto a tratti dispersivo e “già visto e sentito”. Vale la pena di vederlo perché l’ingombrante sentimento dello stare tutti uniti, senza strappi, per arrivare al successo, e la retorica che sta attorno all'ottimismo obbligatorio e al terzo tempo rugbistico, e cioè quel tempo in cui i giocatori e i tifosi, insieme, dopo la gara, festeggiano non la vittoria della partita ma la partecipazione alla partita, vengono messi, anche se non duramente, in discussione. Durante la pausa l’allenatore chiede ai suoi giocatori cosa manca per riacciuffare il risultato, in quel momento disastroso, e c’è chi dice che mancano le palle, chi dice che manca la concentrazione, chi la testa e chi il cuore. E allora il protagonista, romanaccio, che da pochissimi giorni conosce e pratica il rugby, interviene: 
Io non ci ho mai creduto a questa stronzata del cuore. Io non ci ho mai creduto negli sfigati, non ho mai creduto che uno che è abituato a perdere un giorno alza la testa e vince, perché non ho mai creduto nei perdenti, nei falliti, nelle mezze pippe, come voi. Come noi. Quello che vi voglio dire è che a vedere sempre le cose a peggio, a pensarla sempre male ti senti più forte, perché ti aiuta, ti protegge. Però a volte ti puoi pure sbagliare e io oggi sono sicuro che mi sbaglio. 

 Ecco, a me sembra un discorso sensato, anche se, quasi sempre, secondo noi, non ci sbagliamo.

giovedì 20 marzo 2014

I miei libri

del Disagiato

Siccome bisognava riempire una biblioteca “povera”, il sindaco di Lampedusa meno di un anno fa fece un appello: Help, qui mancano libri. E la risposta non mancò, visto che a rispondere furono in moltissimi. A un certo punto, addirittura, a Lampedusa consigliarono di smetterla, che di volumi ne erano arrivati abbastanza. I più, sui giornali e in rete, sottolinearono la sensibilità dei lettori italiani, infelici di vedere un luogo senza biblioteca aggiornata e senza una libreria che fosse un punto di riferimento. A me venne invece da pensare che alla gente, ai lettori, importava così poco dei loro libri che stavano sugli scaffali o rinchiusi negli scatoloni in cantina, da arrivare a regalarli. Certo, per una giusta causa. Così come a me oggi poco importa della maggior parte dei libri che ho in casa. A volte, come fa l’investigatore privato Pepe Carvalho, tutta questa carta la brucerei. Ma non ho camino e fuoco da nutrire. Anni fa non comprendevo quel gesto da piromane – i libri sono sacri, i libri li bruciavano i fascisti, mi dicevo - oggi, invece, lo comprendo benissimo. 

Mi priverei di un’altissima percentuale di libri. La maggior parte di questi non ha avuto e non ha ancora oggi alcun valore: ciò significa che in vita mia ho perso tanto tempo anche con la lettura, perché mi sono fidato delle case editrici e perché ero ingenuo (ora, siccome non si migliora mai, lo sono verso altre questioni). Guardando la mia libreria comprendo anche che leggere mi è servito a poco e che leggere non ha contribuito in nessun modo a cambiare il mio e il vostro mondo. Continuo a essere infelice, come lo ero una volta, appassionatamente. Terrei con me i libri di Primo Levi, di Pier Paolo Pasolini, di Michel Houellebecq, di Giovanni Giudici, di Franco Fortini, di Italo Calvino e di pochi altri. Questi sono scrittori che, come si usa dire stupidamente, porterei su un’isola deserta. Scrittori che non mi hanno reso felice ma più infelice ancora. Ma infelice in maniera disciplinata. Scrivendo di Verga e di mastro don Gesualdo, David Herbert Lawrence disse: “Gesualdo è un uomo comune, dotato di energia eccezionale. Tale è, naturalmente, nell’intenzione. Ma egli è siciliano. E qui salta fuori la difficoltà”. Non sono siciliano ma ho il vizio (un vizio ostinato) di appropriarmi della condizione degli altri, anche se in nulla somigliano alla mia. “Ma egli è umano. E qui salta fuori la difficoltà”, ora scrivo, allargando a dismisura la questione, per fare un personalissimo punto della situazione. Si vive con difficoltà, quindi. Nonostante i libri letti che riempiono la stanza.