sabato 5 aprile 2014

Se stiamo fermi

del Disagiato

Pubblico una bella pagina di Leonardo Sciascia rubata a un suo breve saggio che si intitola L’”Omnibus” di Longanesi (in Fatti diversi di storia letteraria e civile). Perché ritagliarla e metterla qui? Forse per accarezzare una sorta di sotterranea invidia che a volte sale in superficie, che si fa sentire quando sento dire “parto”, “scappo”, “cambio vita e paese”, “vado a fare esperienza altrove”. Così avrei voluto dire e fare io, in passato, l’altro ieri, ieri. Ma ancora nutro la bella speranza di poterlo dire domani, dopodomani, anche se difficilmente, ma chissà, questo accadrà. Ho invidiato con rabbia – una rabbia mai cattiva, mi viene da dire – i “giovani Erasmus” che sono andati a studiare fuori dall’Italia per capire l’Italia o le cose d’Italia: perché anch’io avrei voluto cambiare, lasciare, “fare esperienza”, “allargare i miei orizzonti”, perché anch’io avrei voluto avere la possibilità di uno sguardo più ampio, a “360 gradi”. Ma contraddittoriamente non ho mai creduto – ancora per invidia, per rabbia, sicuramente – a questa cosa che più ci si muove e più si capisce, che più persone si incontrano più si è aperti, comprensibili, sensibili e intelligenti. Ho viaggiato, sì, ma più o meno i miei giudizi e le mie riflessioni sulle cose e sulle persone del mondo sono partite sempre dalla stessa postazione: da qui. Da qui però possiamo fare lo sforzo di chi si mette in punta di piedi per vedere cosa succede là in fondo, dove non abbiamo potuto, voluto andare, per pigrizia, per poco coraggio. E forse è questo sforzo, questa insoddisfazione, questo tentativo a volte utile a volte inutile, che ci mette alla pari con chi invece là ci è andato, con chi si è mosso. Se non alla pari, quasi. Anzi, a volte, a me, sembra di aver visto di più. Ma lo dico per invidia, per rabbia, sicuramente: 

Leo Longanesi (1905); Mario Soldati, Dino Buzzati, Enrico Morovich (1906); Alberto Moravia, Vitaliano Brancati, Guido Piovene (1907); Elio Vittorini, Mario La Cava, Cesare Pavese (1908). Scrittori tra loro diversi, di diversa estrazione, di diversa valenza: e uso l’espressione “diversa valenza” nel senso della diversa vocazione di ciascuno a combinarsi con le “occasioni” esistenziali, storiche, culturali; e insomma con i sentimenti, le ragioni e gli errori del tempo. Ma li si può raggruppare in una specie di pleiade generazionale per il fatto, che tutti li include, del guardare altrove: ad altri paesi, ad altre letterature; più o meno avvertitamente, più o meno coscientemente, sentendo il disagio, l’angustia, la remora della condizione italiana; e cioè di quella provincialità endemica che il fascismo potenziava ed esaltava.  
E qui bisogna intendersi, anche se siamo nell’ovvio: provincialismo non è il vivere in provincia e il fare della provincia oggetto di rappresentazione, il vivere quella vita, il conoscerla e il rappresentarla: provincialismo è il serrarsi nella provincia con appagamento, con soddisfazione, considerandone inamovibili e impareggiabili i modi di essere, le regole, i comportamenti; e senza mai guardare a quel che fuori della provincia accade, senza riceverne avvertimenti, stimoli, provocazioni al pensare feconde, alla visione della realtà fermentanti. A Roma, a Milano, a Parigi, e scrivendone, e tentando di darne rappresentazione, si può essere tanto provinciali che in un paese della Sardegna, della Sicilia, del Friuli. Ora quel che il fascismo esaltava, dicendosene figlio di vigorosa salute, era un provincialismo appunto in sé appagato, in sé soddisfatto, che nulla vedesse e ascoltasse di quel che nella stessa provincia e nel mondo insorgeva a contraddirlo. E di ciò gli scrittori che abbiamo nominato, che ne avessero chiara o confusa coscienza, che si sentissero tout court fascisti o fascisti di un certo fascismo o nettamente antifascisti, sentivano l’angustia e aspiravano alla trasgressione.