lunedì 30 giugno 2014

Come l'ultimo Orazio

del Disagiato

Ricordate la vecchia leggenda romana? Siamo nell’epoca di Tullo Ostilio re, più o meno 600 anni prima di Cristo. Fra Roma e Alba Longa infuria l’ennesima guerra. Stanche di morti e sacrifici, le due città decidono di giocarsi la guerra in un ultimo scontro. A nome di tutti si affronteranno tre fratelli gemelli romani, gli Orazi, e tre albani, i Curiazi. Per Roma sembrava un massacro definitivo, ma l’unico Orazio rimasto in campo ebbe un’idea favolosa. Si mise a correre come se scappasse lungo una strada stretta stretta; i Curiazi gli si gettarono dietro quasi ciecamente. D’improvviso l’Orazio si fermava, si girava e infilava con la spada il Curiazio che lo stava inseguendo più da vicino. Sorpresi dallo stop repentino e certamente non astutissimi, i Curiazi a uno a uno andarono a scagliarsi addosso alla sapiente spada dell’ultimo Orazio. 

Questo breve racconto non è tratto da una pagina di un libro di storia ma dalla pagina di un libro di Mario Sconcerti (sì, ancora lui, scusate) che parla di calcio e che tenta di spiegare perché la tattica del catenaccio all’italiana – un mediano che arretra sulla linea dei terzini - provocò negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso molto malumore in tutto il mondo. Perché mai una squadra che si è difesa ha vinto contro una squadra che ha attaccato? Il più forte vince, o no? “Il punto centrale è aspettare gli avversari nella propria metà campo, costringerli ad attaccare in spazi molto ristretti e conquistare alle loro spalle spazi enormi per il contropiede”. Insomma, grosso modo come fece l’ultimo Orazio, con la sua spada, la sua corsa e la sua astuzia.

sabato 14 giugno 2014

Evviva, ha colpito ancora

del Disagiato

Più di un anno fa, in un mio post, fui molto contento di parlare di Mario Sconcerti e di calcio. Ecco un brano:  
Mario Sconcerti, naturalmente per chi ancora non lo conoscesse, è un giornalista e opinionista sportivo. Scrive, poco, per il Corriere della Sera ed è ospite fisso di un programma sportivo di Sky Sport. Ha scritto libri bellissimi: Storia delle idee del calcio, La differenza di Totti e, uscito poco più di un mese fa, Il calcio dei ricchi. Ci sono poi anche altri libri (uno su Roma e Romolo, che nulla c’entra con lo sport) e, come avrete capito, scrive di calcio. Solo che non scrive esclusivamente di calcio. Il pallone, i giocatori, le tattiche, gli schemi, i soldi e le scelte sono, nei libri di Sconcerti, una conseguenza delle scelte che abbiamo fatto noi, più o meno tifosi, nel mondo, nella nostra società, nella nostra casa e nella nostra stanza. Nei suoi libri si parla di noi come punto di partenza per arrivare sui campi da gioco, sugli spalti, sulle panchine. Una nazionale di calcio è, sostiene Sconcerti, come è il suo popolo: gioca in difesa (ad esempio la Germania che esce dalla guerra) se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso (il Brasile), se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. Il calcio nasce e fiorisce dove c'è il mare, dove ci sono commercianti e marinai. 

Oggi Luca Di Ciaccio, sul suo blog, pare contento di scrivere un post: su Sconcerti, il calcio e altre cose. Ecco un brano. 

Sto leggendo un libro. Il pallone, i giocatori, le tattiche, gli schemi, i soldi e le scelte sono, nei libri di Sconcerti, una conseguenza delle scelte che abbiamo fatto noi, più o meno tifosi, nel mondo, nella nostra società, nella nostra casa e nella nostra stanza. Nei suoi libri si parla di noi come punto di partenza per arrivare sui campi da gioco, sugli spalti, sulle panchine. Una nazionale di calcio è, sostiene Sconcerti, come è il suo popolo: gioca in difesa (ad esempio la Germania che esce dalla guerra) se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso (il Brasile), se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. Il calcio nasce e fiorisce dove c’è il mare, dove ci sono commercianti e marinai. Forse ha ragione chi sostiene che una nazionale di calcio è come è il suo popolo: gioca in difesa se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. 

È la terza volta - e chissà, magari anche di più - che indovino cosa Di Ciaccio scriverà in futuro.

Aggiornamento: Il post ora è stato cancellato dal suo blog, ripulito e ripubblicato. L'originale lo potete comunque trovare qui.


martedì 10 giugno 2014

Per un cappello

del Disagiato




(Attenti, racconto come va a finire, o quasi, un lungo viaggio)

Nel film Nebraska di Alexander Payne un anziano signore toccato dalla vecchiaia e anche un po’ dall’alzheimer si convince di aver vinto tantissimi soldi: un milione di dollari. Una lettera lo informa che per ritirarli deve raggiungere un ufficio di Lincoln, nello stato del Nebraska, e così il vecchio uomo, in stato confusionale, si incammina lungo la statale trafficata della sua città. Ma proprio quando il suo lungo viaggio ha inizio, un poliziotto lo intercetta, lo ferma e lo porta tra le braccia del figlio, che cerca di spiegargli che quella lettera in realtà non è un avviso importante e unico ma solo un foglio pubblicitario che chissà a quante persone è arrivato. Ti fanno credere di aver vinto ma in realtà vogliono propinarti un abbonamento, dice il figlio al padre. Ma il padre insiste di aver vinto. No, non hai vinto, invece. Certo che ho vinto e voglio assolutamente ritirare quel milione di dollari, per potermi poi comprare un compressore e un furgone. Contro il parere della madre e del fratello, il figlio decide di accompagnare il padre in questo lontano ufficio, di intraprendere con lui un lungo e inutile viaggio. E in questo viaggio, come in tanti altri film del genere, ai personaggi capiterà di conoscersi un po’ di più, di scoprire il perché di certe scelte, il motivo di certi umori e rancori che durano tutta una vita. Nel frattempo, però, il figlio continua a spiegare al padre che quel milione di dollari non esiste. E il padre insiste che il milione di dollari è là ad aspettarlo. No, non è vero. Sì, è vero. No. Sì, invece. E insomma, l’anziano uomo nonostante l’evidenza si costruisce una sua realtà, fino a quando la segretaria del famoso ufficio di Lincoln non gli dice che il milione di dollari non c’è – “mi dispiace ma il suo numero non è tra quelli vincenti” - ma che se vuole può avere in omaggio un cappello o un cuscino. Rassegnato e silenzioso il padre accetta un cappello. Magra consolazione (ma il film non finisce qui). 

E io, magari sbagliandomi, ho compreso che tutto il film non parla di un vecchio signore ostinato e fuori di testa ma parla di noi e della strada che ogni giorno facciamo per raggiungere un lontano ufficio, il nostro milione di dollari con il quale poi comprarci un nuovo compressore e un nuovo furgone. Gli altri ci hanno avvisato: il milione di dollari non esiste. E noi a sostenere che invece quella cifra c’è, eccome. E il giorno dopo siamo noi a dire all’amico testardo la stessa cosa: guarda che il milione di dollari non esiste. Quando la segretaria offre al vecchio protagonista il piccolo premio di consolazione, mi sono commosso tanto. In quell’esatto momento ho pensato che se ci andrà bene, alla fine, ci accontenteremo di un banale cappello o magari di un comune cuscino. Quella, nonostante le nostre aspettative e convinzioni, sarà la nostra ricompensa per aver vissuto, per aver frequentato gente, per aver stretto mani, per aver detto cose vere o false. E forse dovremo accontentaci, muti e rasseganti, come il vecchio uomo di questo film. Sempre che sia vero che il milione di euro non esiste, come gli altri, con tutti i loro mezzi, ogni giorno vogliono farci credere.

giovedì 5 giugno 2014

Connettore


del Disagiato


In questi mesi ho provato a descrivere e a raccontare, spesso in maniera ombelicale, lo stato di salute delle librerie e dei librai. L’ho fatta, questa descrizione, osservando soprattutto la mia esperienza e cercando di ricavarne qualche risposta. Perché le librerie, i librai, i libri sono cambiati? Perché là fuori la cultura e le scelte delle case editrici sono cambiate. La libreria non è più un luogo di difesa o un posto che vende strumenti per guardare e giudicare il mondo perché la libreria è diventata il mondo, come il mondo. Con un certo ritardo ho scoperto che esiste un premio letterario che si chiama Prada Feltrinelli: “Nato come connettore trasversale tra moda e letteratura, il premio Prada Feltrinelli si rivolge a nuovi scrittori di talento...”, recita il sito Feltrinelli. Ecco, quel “connettore trasversale” illumina, a mio avviso benissimo, la complicità che si è creata tra un’importante casa editrice italiana – che oltretutto dovrebbe essere una casa editrice di sinistra, marxista, e incarnare un’opposizione totale alla nostra società – e una casa di moda, attenta alla superficie delle cose, al lato grezzo del mercato, al marketing. Hanno lo stesso modo, Feltrinelli e Prada, di guardare “ i segni di un mondo che cambia”, gli esseri umani, le cose e i fatti della vita? A questo punto la risposta è sì. E questo è grave.

mercoledì 4 giugno 2014

Le distanze

del Disagiato

Riporto un brano del libro-intervista Un millimetro in là di Marino Sinibaldi, che sto leggendo in questi giorni, perché mi ha fatto ripensare al romanzo di Aldous Huxley, Mondo nuovo, e a quello che un personaggio, il Governatore del Nuovo Mondo, dice a proposito della nostra felicità e infelicità: tra il desiderio e il suo soddisfacimento ci stanno i sentimenti. E per tenere a bada i sentimenti dei cittadini il Governo deve ridurre questo spazio, fino ad annullarlo: “Giovani fortunati! Non è stata risparmiata alcuna fatica per rendere le vostre vite facili dal punto di vista emotivo; per preservarvi, nei limiti del possibile, dal provare qualunque tipo di emozione”, dice il governatore. Pubblico qui le parole di Sinibaldi non tanto per dire che è meglio andare in libreria o in un negozio di dischi piuttosto che acquistare un libro o un disco in rete, ma per ricordare a me stesso che la lettura e l’ascolto, un tempo, cominciavano già prima dell'atto, andando in una libreria o in un negozio di dischi. E questo, forse, ha a che fare con l’educazione alla fatica, alla responsabilità e alla consapevolezza. 

La prima volta che sono entrato in Amazon … ho cominciato a cercare con la generica chiave “racconti” ed è uscito di tutto, dai testi di esordenti o sconosciuti fino alle raccolte degli scrittori più celebri: i racconti di Čechov, di Mark Twain, di Conan Doyle, di Virginia Woolf. E tutto costava pochissimo. Amazon aveva ovviamente già tutti i miei dati e quindi ho cominciato a ordinare nevroticamente. Ecco un’esperienza concreta dell’intreccio di gratuità (o quasi), povertà (non tutte le edizioni erano ineccepibili), velocità (bastava premere il tasto invio e il libro era qui). Ecco anche una sorta di irresponsabilità: avevo comprato almeno cinque raccolte di racconti e non avevo speso neanche 15 euro, credo. Capisci come tutto questo genera un elemento di nevrotica felicità, quasi una consumistica sindrome di Tourette: stai lì, clicchi nervosamente, prendi. L’esperienza per certi aspetti somigliava a quella che facevo da ragazzo entrando in quei Remainder dove c’era di tutto e costava abbastanza poco. Lì però sfogliavo, soppesavo, sceglievo, confrontavo. C’era comunque un dato fisico, compreso il pensiero di dove mettere i libri, come trasportarli, come riempire lo scaffale: tutti elementi di materialità che generano una specie di responsabilità, o anche solo di misura e sobrietà. Oggi invece lo scenario è una serie di prodotti gratuiti, poveri, leggeri, veloci, senza prezzo, peso e responsabilità. Puoi aprire cento siti di quotidiani, leggere vagoni di libri, visitare mille musei, ascoltare tutta la musica che vuoi senza che tutto questo comporti un qualunque movimento, uno spostamento o una spesa.

martedì 3 giugno 2014

Una rivoluzione?

del Disagiato

Ho letto questa brevissima intervista a Pierluigi Battista in cui si discute del suo nuovo libro, I libri sono pericolosi. Perciò li bruciano, degli effetti della rivoluzione della stampa e della conseguente democratizzazione culturale, rinvigorita anche dalla rete e dalla maggiore possibilità d’intervento da parte del lettore e, se ho capito bene, del cittadino. Solo una riflessione. Secondo me la vera rivoluzione del passato è stata non la possibilità di stampare e pubblicare tanto ma di responsabilizzare (e pagare) un gruppo di intellettuali che filtrasse e giudicasse ciò che si voleva venisse stampato. Questo accadeva, e un poco ancora accade, nelle case editrici. Non solo, grazie a questi intellettuali, abbiamo letto ottimi libri (alcuni sono diventati classici) ma non ne abbiamo letti altri. E per fortuna. Chissà quanti romanzi o saggi sono stati bocciati per la loro scarsa qualità. È stato questo filtro – un filtro che per mezzo di una profonda, e a volte difettosa, riflessione ha sdoganato ma anche bloccato - che ha valorizzato la stampa: certamente anche la scrittura fu una vera rivoluzione ma una riflessione sulla scrittura ha fatto molto di più. La mia sensazione (ma è più di una sensazione) è che il vero problema, oggi, nelle case editrici e nelle librerie, non è la minaccia della censura (il libro bruciato è a sua volta una buona immagine che vende libri) ma la moltiplicazione scriteriata e assurda dei libri. Questo avviene perché i progetti sono mutati, perché manca il filtro: un gruppo di intellettuali che pensa che la quantità non è la qualità, che la cultura deve prendere le distanze, perlomeno inizialmente, dal marketing.