martedì 30 settembre 2014

Fogli

del Disagiato



Da un mese e mezzo circa lavoro in un ufficio con altre quindici persone e qui, come potete immaginare, smisto telefonate, controllo e archivio documenti, faccio e faccio mettere firme, rispondo a domande, do indicazioni a chi ha bisogno di indicazioni e poi altre cose classiche, senza tempo, che anche voi, se non fate lavori troppo originali, conoscete bene e cioè temere i colleghi e aspettare la fine del turno per ritornare a casa. Qualche giorno fa mi è accaduta una cosa strana (almeno per me), che mi ha fatto scoprire un lato intimo che fino a quel momento non avevo ancora conosciuto. Una mia collega mi ha messo sulla scrivania un pacco di fogli dicendomi: “per favore, dovresti metterlo in ordine alfabetico”. E l’ordine alfabetico che intendeva lei era quello dei cognomi dei clienti che erano stampati nell’angolo in altro a sinistra dei fogli. L’ordine, poi, doveva contemplare le prime due lettere: AA, AB, AC e via dicendo. Io ho detto alla collega “certo, lo faccio subito” e poi ho guardato quel pacco enorme chiedendomi quale criterio usare per fare il giusto ordine e valutando, con un po' di ansia, il tempo che avrei impiegato per concludere. Insomma, ho cominciato a fare questo lavoro che, credetemi, era talmente brutto e talmente orrendo che più volte ho pensato di scappare dalla finestra per non farmi vedere mai più, per non ritrovarmi a mettere in ordine alfabetico pacchi di documenti bisognosi di cura. Ma non sono scappato. 

Mi sono messo a sfogliare, suddividere e spostare di qua e di là fogli. E mentre facevo questo, parlavo con i colleghi che mi erano vicini. E siccome il lavoro non era bello, di tanto in tanto non solo parlavo ma facevo anche il simpatico per sciogliere una tensione che c’era in me. E siccome più il tempo passava più mi sentivo frustrato, non solo facevo il simpatico ma ridevo e facevo ridere (davvero forte questo nuovo collega, diceva qualcuno) e poi, in un momento di pausa, sono andato a prendere un caffè con il mio vicino di scrivania e poi, ritornato sui miei fogli, ho desiderato non solo di prendere altri caffè con tutti i colleghi dell’ufficio ma anche di bere aperitivi, di fare quello che vuole stare con gli altri, che sa stare con gli altri, che sa fare gruppo per una causa qualsiasi. Due ore così, a sistemare fogli (e a questo punto spero di aver fatto un buon lavoro) e a comportarmi come mai, penso, mi sono comportato. Solo alla fine, solo quando i cognomi dei documenti erano messi come dovevano essere, mi sono guardato da fuori. E mi sono visto mentre parlavo e ridevo con i colleghi, mentre desideravo in maniera quasi patologica di stare e fare cose con gli altri: qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa pur di rendere quelle due ore meno tragiche, meno brutte o, non so come dire, meno estenuanti. Mi sono visto ridicolo e snaturato. 

E allora potete immaginare anche la specie di morale di questa storia o le domande che la introducono: non è che forse la nostra socialità dipende dalla qualità della nostra vita? non è che la quantità (e la qualità) di tempo che io passo con il gruppo è direttamente proporzionale alla quantità di schifo su cui giace il mio tempo libero? La mia passione calcistica, il fervore esagerato che si palesa ogni qualvolta l’attaccante si avvicina all'area, sarebbero irrilevanti se io fossi completamente contento della mia vita? Perché è chiaro che se la mia esistenza fosse paragonabile al lavoro di mettere in ordine alfabetico un pacco di fogli, allora dovrei sedermi e riflettere. Non che ci sia qualcosa di male nello stare con gli altri e nel fare gli spiritosi, ma non vorrei che il nostro stare con gli altri fosse il risultato di una scontentezza, la conseguenza di una vita infelice. Come sarebbe mettere in ordine alfabetico fogli per tutta la vita? E non è che qualcuno di quel quaranta e più per cento che appartiene al Pd, di cui Matteo Renzi giustamente si vanta, ha una vita simile a quelle mie due ore a sistemare documenti e quindi pur di sdrammatizzare ed evadere si mette in quel quaranta e più per cento? Stare con gli altri per non stare da soli. 


                                                                          ***

Vi giuro che questo post è nato per parlare di quello che mi è successo in un ufficio e non per parlare di politica. Credetemi, è solo un esempio che mi è venuto in mente ora o che, detto meglio, mi è rimasto impigliato nella mente dopo aver visto Matteo Renzi in televisione domenica sera, nella trasmissione condotta da Fabio Fazio. Su questo blog non vorrei parlare di politica ma parlare di libri e quindi di letteratura (o, come ho fatto prima, di me) non tanto perché è antipatico o difficile parlare di politica ma perché la letteratura è politica, visto che ha a che fare con le prese di posizione e con i modi di stare al mondo. Però, già che ci sono, ne approfitto per parlare, con un po' di presunzione, a quel quaranta e passa per cento e per sottolineare alcune cose, non tante, che mi hanno dato fastidio di Renzi, l’altra sera. La prima cosa che mi ha dato molto fastidio è che non appena si è seduto si è messo a parlare di un capitolo del libro di Dino Zoff (ospite poco prima di lui) come se lui avesse letto il libro di Zoff. Solo dopo, messo alle strette, ha ammesso di aver letto quel capitolo nel camerino, qualche minuto prima (l’ha letto per poter dire di averlo letto: sfacciato). Un’altra cosa che mi ha dato fastidio è che, parlando di lavoro, ha paragonato la realtà – e nella realtà ci siamo noi con i nostri fogli da mettere in ordine alfabetico – alla Apple e alle concorrenti: dobbiamo essere e fare come la Apple, che ha vinto su tutti i concorrenti, ha detto grosso modo. A parte il brutto paragone – un paragone che professionalizza la nostra condizione umana – solo messo alle strette ha ammesso di aver trovato e provato quel paragone poco prima di entrare in studio (sfacciato). Poi mi ha dato fastidio, per la sua estrema semplicità, il paragone tra l’Italia e la macchina con la batteria scarica che deve essere messa in moto. Ancora più fastidioso il fatto che lui abbia ammesso di aver pensato e provato questo esempio poco prima (sfacciato). 

Insomma, a me sembra che Matteo Renzi l’altra sera fosse consapevole di parlare a persone che hanno una vita di merda, molto simile a quelle mie due ore davanti ai fogli da mettere in ordine alfabetico. Astuto, si è preparato degli esempi da prima elementare (la macchina da spingere, il telefonino Apple e anche la sua capacità, tra le tantissime cose da fare, di leggere un capitolo scritto da Dino Zoff su Scirea) per regalarci quel sorriso mostruoso, il nostro si intende, che è il sorriso di chi intravede la speranza (che sarebbe lui: sfacciato). Forse la nostra vita non ha niente a che fare con la noia e il tedio del mettere in ordine alfabetico dei documenti, meglio così, ma l’altra sera Matteo Renzi si è rivolto a noi con la stessa ironia con cui le pubblicità ironiche si rivolgono a noi. David Foster Wallace in Tennis, Tv, Trigonometria, Tornado scrive di una famosa pubblicità della Pepsi: in una giornata caldissima un tizio apre e beve una lattina di Pepsi vicino a un microfono attirando quelli che sono sotto il torrido sole sulla spiaggia. “Pepsi, la scelta della nuova generazione”, dice lo slogan, alla fine. Questa è ironia, spiega Wallace. Cioè la Pepsi sa che noi sappiamo che la pubblicità gioca con le immagini e con le parole: le immagini fanno dell’ironia per mezzo delle parole. Non c’è alcuna scelta. Quelli sulla spiaggia, che stanno morendo di caldo e di sete, non hanno alcuna scelta. La Pepsi irride il potere delle pubblicità passate (che puntavano sulle “generazioni” e sui sentimenti”) per avene di più. Lei sa che noi sappiamo. 

Ecco, Matteo Renzi l’altra sera sapeva di fare esempi elementari e sapeva pure di essere sfacciato dicendo di esserseli preparati prima. Ma lui, proprio per questo, è diverso dagli altri. Lui è come noi. Lui ci sta abituando a questa consapevolezza, a questa sincerità primordiale, a questa sfacciataggine (gli esempi e i gesti se li è preparati prima di entrare in studio, davanti allo specchio). Lui, e magari non solo lui, irride il potere dei vecchi politici per averne, di potere. Lui sa che noi sappiamo che lui sa e bla bla bla. E intanto le nostre vite assomigliano sempre di più a quelle mie due ore in ufficio, a impilare fogli. Terribile.

lunedì 29 settembre 2014

Rimedi

del Disagiato

Che io, ho pensato poi alla fine l’altro giorno alla libreria Ambasciatori, questo De Carlo che dice delle cose anche sbagliate, che un po’ si confonde anche lui, e che si mette, in un certo senso, al servizio del libraio, e cerca, non so come dire, di guadagnarsi la pagnotta, a me ho pensato che mi piace di più, del De Carlo che era venuto tredici anni fa e che sapeva tutto lui e che suonava la chitarra e ci spiegava com’erano i tedeschi e com’eran gli italiani così se andavamo in Germania almeno sapevamo, un po’, come comportarci. (Paolo Nori)

Discutendo con un amico di libri, librerie, incassi ed ebook ho ammesso, forse per la prima volta, che oggi una libreria per avere senso deve “creare eventi” oltre che esporre e vendere libri. L’alternativa (che in realtà è lo stato presente delle cose) per il negozio è quello di essere un magazzino dove il cliente forse viene ad acquistare un romanzo e dove, forse, non succede nient’altro di interessante e costruttivo. L’unica certezza è che oggi il libraio ha tanti nemici esterni che il lettore, fuori, giudica più comodi e più economici, e che qui, in passato, abbiamo elencato già troppe volte.

Mi ha fatto molto sorridere questo post di Paolo Nori su Andrea De Carlo e il suo pubblico. Una volta De Carlo riempiva teatri, suonava la chitarra, faceva il brillante e ci spiegava com’era fatto il mondo, oggi invece – oggi che lui e l’editoria che lo ha sempre coccolato devono cercare un profilo migliore con cui mettersi in posa – parla di libri davanti a poche persone che ancora non hanno letto il suo libro e che vogliono ascoltare che cosa lui ha da dire sul suo ultimo libro. Ammetto di essere un po’ confuso, a questo punto. State a vedere che gli eventi e le attività che le librerie, e con loro le case editrici, dovrebbero organizzare dovrebbero riguardare i libri, la narrativa e gli scrittori. Ci impressiona Andrea Carlo che parla del suo lavoro e basta? Non so voi, ma a me sì. Altrimenti il racconto di Nori non mi avrebbe fatto sorridere (e soprattutto non mi avrebbe fatto riflettere). Insomma, un buon metodo di sopravvivenza per le librerie, oltre che vendere libri, potrebbe essere questo: far parlare di libri chi scrive e legge libri. Metodo rivoluzionario, vero?

martedì 23 settembre 2014

Il prezzo immenso

del Disagiato

Questa mattina ho letto che è incominciata una nuova guerra: gli Stati Uniti hanno attaccato l’Isis, le sue basi, le sue roccaforti. I giornali scrivono del conflitto con titoli e articoli che si somigliano (il mio, quello di un secondo fa, è un riassunto preconfezionato di questi articoli), citando i nomi degli alleati, indicando le radici e suggerendoci il percorso che ci ha portati fino a qui. Davanti a questi titoli ho cercato di avere un giudizio, nonostante le mie scarse competenze e conoscenze. Ho anche cercato di mettere da una parte i cattivi e dall’altra i buoni (e fare questo, chissà perché, mi è venuto abbastanza bene, senza ragionarci troppo). Poi ho smesso di pensare a questa guerra per pensare, invece, alla guerra. E mi è ritornato in mente uno dei commenti al sempre attuale scontro tra Palestina e Israele di Eva Illouz, una sociologa e giornalista che, ammetto l'ignoranza, fino a qualche giorno fa non conoscevo: 

[...] È ciò che fa la guerra. Ti fa venire un callo. Il callo è una pelle ispessita, dura, insensibile. Gli israeliani sono diventati di pelle dura verso gli altri e verso se stessi. È il prezzo immenso che si paga per essere costantemente immersi in una logica di guerra: si diventa insensibili. Quando si va in guerra, la prima volta è molto difficile uccidere qualcuno; dopo la quarta persona uccisa si diventa insensibili. Dopo tutti questi anni di guerra, gli israeliani sono diventati insensibili al significato della guerra. Non comprendono più il prezzo di una guerra costante perché non sanno più che cosa significhi vivere in pace. È la chiave per capire la cecità della società israeliana. Intere generazioni sono cresciute senza conoscere nient’altro che gli insediamenti. Conoscono Israele solo sotto forma di potenza coloniale. Per loro è normale. Ciò che alcuni israeliani percepiscono come anomalo perché sanno com’era prima, per altri è normale. È molto difficile fare capire com’è vivere in una società normale, e non in una potenza coloniale.

venerdì 19 settembre 2014

Quale parola?

del Disagiato

...un altro tratto paradossale del nostro tempo: la parola circola ovunque rivelando il suo carattere inflazionato. Drammi privatissimi trovano posto nel circo dei talk show, una cattiva retorica pedagogica sostiene la necessità infinita del dialogo: si può dire e parlare di tutto senza alcun limite. Ma in questo carrozzone impazzito di una parola che circola tanto più velocemente quanto più appare svuotata di senso, viene meno una delle conseguenze decisive nella formazione dell'individuo. Viene meno la parola. Quale? Quella che stabilisce una relazione stretta tra il dire e le sue conseguenze. Le parole che diventano "solo parole" sono le parole che hanno perduto il nesso etico che le vincola alle loro conseguenze. È questo l'effetto principale del loro svuotamento narcisistico. La parola dovrebbe comportare sempre l'assunzione soggettiva delle sue conseguenze o, quantomeno, lo sforzo della loro assunzione. La parola non è mai solo una parola, perché plasma, genera la vita. ("L'ora di lezione" di Massimo Recalcati, Einaudi, 2014). 

Toccando il luogo comune, abbiamo ripetuto quasi d'istinto (e l'abbiamo sentito ripetere, non d'istinto ma con qualche calcolo, dalle commoventi pubblicità televisive) che "oggi si comunica di più" anche grazie alla telefonia mobile e anche grazie a internet, utilissimi strumenti che hanno abbattuto remore, timidezze e confini. E quante volte alla domanda "cosa studi?" ci hanno risposto "scienze della comunicazione" e poi, ancora, parlando di editoria abbiamo evidenziato la quantità di libri stampati e a proposito degli ebook la possibilità, per tutti, di pubblicare e dire senza mediatori e costi. Penso anche al consiglio in tono di rimprovero che certa psicologia (non solo spicciola) fa alle madri e ai padri: ogni giorno dovete trovare un momento di dialogo con i vostri figli, per non lasciarli soli. Insomma, a un certo punto, a me, è venuto da chiedermi: ma comunicare che? scienza di quale comunicazione? conoscere tante lingue straniere per dire in più lingue cosa? E forse anche queste domande sono mal poste.

Nel trito quotidiano (a volte siano stanchi e deboli e distratti e superficiali) mi dimentico di dare importanza a ciò che sto per dire, al come lo sto per dire, e non perché la lingua italiana è una religione o perché dobbiamo sottometterci gratuitamente alla grammatica o venerare le leggi e le logiche che la impastano ma, magari, per un altro motivo: perché gli altri (gli altri che spesso non sopportiamo) nonostante tutto sono importanti, ci sono vicinissimi, e noi verso gli altri abbiamo una non piccola responsabilità. Mi piace pensare che ogni mia parola inneschi qualcosa, che ogni sostantivo o aggettivo che scelgo di leggere in una pagina di un libro costruisca conseguenze. Forse (ma è solo una mia illusione) assumendoci la responsabilità della parola diventiamo più credibili o ordinati e quindi l'uno per l'altro meno insopportabili. Perché poi il problema, in fondo, sono proprio gli altri, da quando ci alziamo dal letto per andare a lavorare o anche solo per raggiungere un aereo che ci porterà via, lontano dal solito quartiere. Insomma, parlare bene e con cognizione dovrebbe servire non tanto ad amare di più gli altri ma semmai ad odiarli di meno. E questo, secondo me, sarebbe già un buon traguardo.

giovedì 18 settembre 2014

Solo domande

del Disagiato



Come può una famiglia dare senso alla rinuncia se tutto fuori dai suoi confini sospinge verso il rifiuto di ogni forma di rinuncia? ("L'ora di lezione" di Massimo Recalcati, Einaudi, 2014)

Una domanda che ho letto ieri sera, poco prima di spegnere la luce e addormentarmi. E mi ha ricordato, un po’, le domande che mi facevo tanto tempo fa, quando ero un libraio, a proposito delle librerie e della cultura in Italia (le due cose dovrebbero abbracciarsi, ci siamo detti tante volte): come posso pensare a una libreria di qualità quando il mondo, lì fuori, non ha nessuna di queste qualità? come posso pretendere capacità di selezione e ponderatezza – e tante, tantissime altre cose che dovrebbero avere a che fare con l’intelligenza e l’attenzione - dagli editori ma anche dai partiti politici (dal mio partito politico) quando nessuno, o quasi nessuno, chiede che nel mondo ci sia capacità di selezione e ponderatezza?

lunedì 15 settembre 2014

Cocktail e convegni culturali

del Disagiato

Sono passati poco più di cinquant’anni da quando fu realizzato questo breve documentario (via slowforward, che l'ha proposto prima di me) sull’editoria e l’industria che la contiene e la guida, e tra le dichiarazioni di editori e consulenti ormai resi storici e famosi dal tempo – dopo tante fotografie fa senso vederli sullo schermo così vivi e pensanti - mi sono chiesto se per davvero oggi è peggio di ieri o se le cose, al di fuori da qualsiasi riflessione drammatica sulla salute della nostra letteratura, oggi siano diverse da ieri. Sarà capitato anche a voi, ma mi sono accorto che sostenere che oggi si sta peggio fa bene, o così sembra, alla salute: fa bene cercare un appiglio, poter scrutare indietro per imitare anziché guardare avanti per inventare. O forse, insisto, è giusto voltarsi per cercare l’attenzione e l’esperienza di chi c’è già stato e magari ha già sbagliato. Chissà. Sta di fatto che guardando con lucidità e imparzialità il filmato viene istintivo dire per alcune affermazioni “oggi le cose non stanno così” e, per altre considerazioni, “anche oggi le cose stanno così”. 

Si parla, a proposito di libri, di propaganda persuasiva e penetrante, di tecniche pubblicitarie, di veste editoriale accattivante, si ammette che l’editoria è vicina alle altre imprese di produzione rendendo così un libro (un libro di Cassola, ad esempio) un prodotto fuori dal terreno destinato alla cultura. Valentino Bompiani afferma che l’industria editoriale oggi (cioè ieri come oggi) cambia articolo quasi ogni giorno e che “in una casa editrice come la nostra tra novità e ristampe esce un libro ogni giorno”; Carlo Verde sottolinea che mentre la propaganda per mezzo di inserzioni pubblicitarie, di annunci radiotelevisivi, dell’organizzazione dei cocktails e dei convegni culturali appositamente indetti fa chiasso per vendere “quel libro”, la UTET invece rovescia questo processo con altri approcci e sistemi di vendita; Gian Giacomo Feltrinelli dice che è sbagliato imporre al pubblico, per mezzo della persuasione pubblicitaria, i gusti culturali e poi, facendo un po’ di conti, dice che “noi consideriamo che le spese di pubblicità non debbano superare il 7% del fatturato della casa, perché altrimenti le incidenze di queste spese pubblicitarie graverebbero eccessivamente sul prezzo di copertina e cioè sulle tasche dei nostri” elettori (elettori o lettori, non capisco bene cosa dice). Insomma, ci farebbe bene posare lo sguardo su questo pezzetto di storia anche solo per capire quante vecchie e anacronistiche sono le nostre lamentele, per comprendere, guardando dall'alto, la complessità del labirinto in cui ci troviamo.

sabato 6 settembre 2014

Hai scritto un libro

del Disagiato

Provo ad immaginare il motivo, l'urgenza, che ci spinge a scrivere un libro: per migliorare il mondo, per spiegare alla gente che quello che conta non è il successo ma la serenità, non l'apparenza ma l'interiorità. Oppure: per togliere un peso o per sbrogliare un nodo che sta in noi, e ciò implica che non si vuole migliorare il mondo ma migliorare noi stessi. Ancora: si scrive per migliorare noi stessi per poi, di conseguenza, trovare il modo per migliorare il mondo. Vi immagino a pensare e a stendere vite e personaggi (se è un romanzo) o ad allineare idee, concetti, nozioni e sillogismi (se è un saggio) di sera, dopo cena, dopo una giornata di lavoro. Le ore buie ve le prendete per rendere chiaro quello che avete da dire, per raccontare direttamente o per vie traverse quello che vi è capitato dieci anni fa o ieri. Fate il punto della situazione, con il vostro libro, per saper affrontare tutti interi il domani, il dopodomani. Scrivete per dare trama a ciò che rischia di diventare, se già non lo è, caos. Date trama per fare ordine. Certo, il rischio è quello di raccontarsi una propria verità (ci si racconta sempre una propria verità) ma quando posate la penna e vi preparate ad indossare il pigiama, lo scrivere vi sembra uno dei modi più saggi e intelligenti per spiegare o solo raccontare. Voi non siete come gli altri. Sapete pensare, sapete parlare e sapete scrivere (vi dite questa verità più volte nell’arco di un anno) quindi perché non scrivere un libro? Perché non mettere su carta personaggi che vi circolano in testa da troppi anni? Tutto questo, ripeto, per migliorare voi e magari anche chi legge. 

Poi succede che vi pubblicano e che per la pubblicazione non avete dovuto spendere neppure un euro per il correttore di bozze e per la stampa. La vostra casa editrice non è una di quelle che vi frega, è seria e forse anche famosa, ha un suo progetto culturale. Ed è a questo punto, subito dopo la pubblicazione, che dovete pubblicizzare il vostro libro su facebook, sul vostro blog (vi ricordate quando eravate solo dei blogger sfigati?), su twitter e via dicendo. Partite col dire a tutti che avete scritto un libro. Poi dite a tutti, più volte nell’arco di un mese, di mettere un like sul profilo facebook del libro che avete impiegato mesi se non anni a pensare, scrivere, correggere e ricorreggere e ancora correggere. Poi citate emozionati l’amico che vi ha citati in un suo post sul suo blog (lui è ancora fermo ai blog). Poi pubblicate la recensione che un sito di letteratura ha scritto sul vostro libro o un pezzo davvero tosto che l’Espresso o Tv Sorrisi e Canzoni vi ha dedicato. Mettete link e cercate link da mettere. A forza di link e pubblicità il mondo che con il vostro libro per qualche ora era migliorato, anche solo un poco, sta ricominciando ad essere brutto. Poi incominciate a pubblicare i commenti intelligenti che i lettori hanno scritto su Ibs o Amazon o altrove. Ne andate fieri e anche questo lo dite a tutti. E il mondo che volevate migliorare intanto continua a peggiorare. Forse era meglio stare fermi, non scrivere nulla, uscire con il cane più spesso, al giardinetto, dove ci sono quelli che non scrivono libri. 

Poi, non sapendo più cosa dire, pubblicate i commenti agghiaccianti e sgrammaticati che i lettori del vostro libro hanno scritto su Ibs o Amazon o altrove, e ridete insieme ai vostri amici di quei lettori analfabeti. Ridete e parlate del vostro libro in continuazione per migliorare il mondo. La casa editrice vi scrive per dirvi che le vendite “sono soddisfacenti”, che del vostro romanzo o del vostro saggio se ne occuperà anche Panorama, il mese prossimo. Intanto, a forza di avere a che fare con la gente, voi state peggio di prima, siete talmente stanchi che non siete stanchi, e il mondo ora diventa lo specchio sporco di questa situazione. Forse era meglio non scrivere, vi dite ancora, di nascosto da voi stessi, in bagno, mentre vi lavate i denti tra un link e l’altro, tra un like e l'altro.